Fondazione Carisbo, la pace di Monti Sul piatto 54 milioni
Con l’elezione del radiologo alla presidenza Carisbo si chiude lo scontro tra soci storici e istituzionali
Con l’elezione di Carlo Monti alla presidenza della Fondazione Carisbo si chiudono due anni di battaglia durissima tra soci istituzionali e soci storici.
Inizia una nuova fase dove ci saranno meno soldi per la cultura e più soldi per il sociale. Sul piatto per i prossimi tre anni ci sono finanziamenti per 54 milioni di euro.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando il sindaco Merola diceva che quelli dei soci storici della Fondazione Carisbo erano «gli ultimi colpi di coda dei soviet», minacciava le vie legali e soci come Romano Prodi e Giorgio Guazzaloca lasciavano l’assemblea. Sono passati due anni da quel braccio di ferro sul principale forziere della città e quella fase si è chiusa definitivamente ieri con l’accordo sulla nomina del radiologo Carlo Monti, 76 anni, alla presidenza della Fondazione Carisbo. Lo scontro tra i soci storici, emanazione indiretta dei primi cento bolognesi che nel 1837 diedero vita alla Fondazione riconosciuta dallo Stato Pontificio, e che reclamavano l’autonomia dell’istituto, e i soci istituzionali (Comune, Regione, Camera di Commercio, Università) che volevano una Fondazione più aperta alla città, si è ricomposto. Il primo passaggio era stato la nomina nel cda di un componente gradito al Comune di Bologna come il commercialista Antonio Gaiani e ieri la nomina di Carlo Monti, esponente dei soci storici, ma considerato uomo di mediazione dai soci istituzionali, ha completato il quadro. Uno dei grandi mediatori dell’operazione è stato il vicepresidente uscente Gianfranco Ragonesi che, quando arriverà il parere del ministero dell’Economia sulla modifica dello Statuto, dovrebbe assumere la carica di presidente onorario della Fondazione.
Che Monti sia l’uomo del dialogo o della fine delle ostilità lo si è capito quando prendendo la parola davanti al collegio di indirizzo ha usato la parola «concordia» per parlare del futuro. E poi ai cronisti ha ribadito che incontrerà le istituzioni e ha promesso: «Il mio impegno è quello di proseguire l’attività della Fondazione su basi di collegialità e di massima collaborazione con tutti gli stakeholder pubblici e privati».
Quella tra i soci storici, definiti conservatori dalla vulgata giornalistica, e i soci istituzionali, che nel gioco delle parti erano diventati i progressisti, non era naturalmente una disputa filosofica sul ruolo delle Fondazioni. Certo, i primi, leggi alla mano, difendevano l’autonomia di Casa Saraceni e i secondi pensavano che la Fondazione dovesse diventare patrimonio di tutti. Ma fuori da queste schermaglie il problema è rappresentato, come succede anche nelle migliori famiglie, dai soldi. Non sono più i tempi d’oro in cui le banche mietevano utili ma con l’aria che tira, una cassaforte che ha un patrimonio da 807 milioni e che nel 2017 ha chiuso il bilancio con un avanzo di esercizio di 100 milioni di euro e che, infine, ha stanziato 17 milioni per la città, resta comunque molto ambito. Ed è proprio sulla destinazione dei fondi che i soci istituzionali misureranno la svolta e la maggiore apertura dimostrata nel passaggio delle nomine del cda e del presidente. In particolare, per quest’anno e per i prossimi due, la Fondazione ha previsto un’erogazione di 18 milioni l’anno, 54 milioni in tre anni. Fondi che servono a tutti per i loro progetti.
Per scendere ancora più nel concreto il fronte dei cosiddetti progressisti chiedeva e chiede bandi più aperti e trasparenti per l’erogazione delle risorse e una netta inversione di tendenza sulle priorità: molti più fondi al sociale e al welfare, meno soldi alla cultura e ai musei, compreso quello della città voluto dalla Fondazione sotto la guida di Fabio Roversi Monaco. Lo stesso Monti ieri ha promesso di «incrementare maggiormente l’attività di erogazioni e l’impegno nel sociale». Inutile girarci intorno: per i soci istituzionali, con bilanci sempre più magri, le risorse della Fondazione possono essere un aiuto per raggiungere obiettivi ormai impraticabili con le risorse pubbliche. Naturalmente questo è il libro delle speranze dei progressisti ma poi bisognerà vedere nel concreto cosa succederà. Perché non bisogna mai dimenticare che i soci storici hanno deciso di cessare le ostilità per il bene della città e perché non si offriva un bello spettacolo, ma sono consapevoli che le norme e i numeri del collegio di indirizzo e del consiglio di amministrazione sono dalla loro parte. Per parafrasare Enrico Cuccia che diceva che le azioni non si contano ma si pesano, per i soci storici è lo stesso: Casa Saraceni non è il consiglio comunale e uno non vale uno.