Aldo Cazzullo e la «fame» del 1948
L’anno della Ricostruzione. Nel libro di Aldo Cazzullo il riscatto e la rivincita di un’Italia che appare così lontana da quella odierna. Oggi la presentazione con Romano Prodi
Cazzullo Don Camillo e Peppone non erano certo migliori di noi, ma avevano tanta voglia di riscatto
«L’Italia del Natale 2018 è un paese di cattivo umore. Anche se i nipoti spenderanno in regali cento volte più di quanto avevano speso i nonni del 1948, sono convinti di essere più sfortunati di loro».
Il ritratto comparato delle due epoche italiane è onesto, immediato, a tratti ustionante per noi che lo leggiamo. Settant’anni separano l’Italia che si leccava le ferite della seconda catastrofica guerra europea e della prima guerra civile italiana da quella di oggi, ma lo spirito dickensiano dei due Natali che Aldo Cazzullo coglie nel suo nuovo libro «Giuro che non avrò più fame» (Mondadori, presentato oggi alle 18 alle Librerie. coop Ambasciatori) si rivela una sorta di specchio rovesciato. In cui a perderci siamo noi che viviamo in questa epoca. Di qua, un benessere a macchia di leopardo, ma incomparabilmente più solido di quello di allora genera frustrazione e angoscia riguardo al futuro. Di là, nel ’48 di De Gasperi e Togliatti, di Coppi e Bartali, delle case crollate e della campagna sterminata, c’è speranza, c’è ottimismo. Il racconto di Cazzullo dell’Italia della ricostruzione, che non è l’Italia del boom dei consumi che verrà negli anni Sessanta ma la sua anticamera, il prologo, non può che essere così: aspro e allegro, scanzonato e tumultuoso. E poi, il ’48 è anche e soprattutto l’anno dell’“o noi o loro”, del “di qua o di là”, l’annosimbolo della contrapposizione con i sovietici. Come scrisse molti anni dopo Alberto Ronchey: “meglio una messa al giorno che una messa al muro”.
Aldo Cazzullo, qual è la fotografia della provincia italiana, e — visto che siamo a Bologna — della provincia emiliana nel 1948?
«Quella di una ragazza di vent’anni che qualche giorno prima del Natale del 1948 scrive al settimanale Grazia. Si chiama Lillina, è sposata con due figli, ed è disperata: lavora dal mattino alla sera, come sarta e come casalinga, il bambino si lamenta, la neonata piange. Eppure Clementina, la firma che cura la pagina delle lettere, le risponde di non lamentarsi ma di obbedire e organizzarsi meglio».
Un caso esemplare o la normalità?
«Nel dopoguerra la vita di Lillina è la stessa di milioni di italiane. Certo, in campagna va anche peggio. A tavola siedono solo i maschi, le donne stanno in piedi, cucinano, servono, sparecchiano. E il regalo di fidanzamento è un anello con una punta, che serviva a sbucciare e sgranare le pannocchie di granturco dopo la mietitura».
Da cosa è tratto il titolo del libro, «che non avrò più fame»?
«È una frase che viene messa in bocca a Rossella O’Hara in Via col vento. Alla fine del primo tempo, Rossella fa ritorno a Tara e la trova distrutta dalla guerra. La madre è morta di tifo, il padre ha perso la ragione, lei non mangia da giorni. Strappando una piantina, la alza al cielo e grida: «Giuro davanti a Dio, e Dio m’è testimone, che supererò questo momento. Lo giuro davanti a Dio: non soffrirò mai più la fame!». È un po’ il giuramento che hanno fatto tutti gli italiani di allora, del 1948. Anche quelli che non avevano visto Via col vento».
Oggi sarà a Bologna con Romano Prodi. E Bologna è stata uno snodo fondamentale della storia di allora. Di Bologna era Giuseppe Dossetti, uomo della sinistra democristiana. Dalla parte dell’Occidente se l’alternativa era la Russia, ma sicuramente non un ammiratore del sistema capitalista.
«Dossetti veniva dall’esperienza partigiana. A trent’anni era stato presidente del Comitato di liberazione di Reggio Emilia. Un cattolico in mezzo ai comunisti. Nella sua visione gli operai devono votare per la Dc, dunque la Dc deve essere competitiva con la sinistra sul piano sociale: deve conquistarsi quei voti nelle fabbriche, nei campi, nel sindacato. Quando nel ’52 va a trovare a Firenze l’amico e sindaco Giorgio La Pira, un altro padre costituente Dc, Dossetti gli annuncia di voler lasciare la politica per farsi prete: la Dc è diventata troppo conservatrice, e poi, dice, i sovietici sono comunque destinati a vincere: ha saputo che nella Berlino occupata i russi hanno prelevato gli scienziati che lavoravano al progetto atomico di Hitler, avranno la bomba, prima degli americani».
E cosa gli rispose La Pira?
«La Pira chiamava Dossetti “Pippo”. E gli disse: No, Pippo, ti sbagli. I comunisti perderanno. perché sono senza Dio».
Facciamo un salto ad oggi. Com’è che quella Italia che aveva così poco era capace di così tanto buonumore, e questa Italia relativamente sazia attraversa la propria «età della rabbia», come l’ha chiamata Pankaj Mishra, un’epoca di frustrazione e scontento?
«La mia interpretazione è che allora si andava dal meno al più, mentre adesso è il contrario: si sente che la curva è in qualche misura discendente. Allora ci si svegliava chiedendosi con curiosità ed entusiasmo: che cosa accadrà oggi? Oggi ci svegliamo e diciamo: speriamo che non mi accada nulla. Quello era un Paese che a sei anni dalla fine della guerra dovette istituire doppi turni alle scuole elementari perché ci sono troppi bambini, adesso di figli non se ne fanno più. E questo è un grande depauperamento. Il nostro è quasi un mantra: “Sta crescendo la prima generazione che sarà più povera dei padri”. Come se i nostri padri avessero avuto la vita facile».
Gli italiani di Don Camillo e Peppone erano migliori di quelli di oggi?
«No. Erano individualisti e familisti esattamente come noi. Ma avevano voglia di riscatto, e di divertirsi. Cantavano per strada. A volte per piacere, a volte perché erano obbligati, come mia nonna, durante la vendemmia». Perché si era costretti a cantare? «Perché così non si mangiava l’uva dei padroni».