Nella stanza della rabbia dove si paga per sfogarsi e si spacca (quasi) tutto
Dagli Usa a Bologna: una rage room per «liberarsi»
«Stiamo pensando a un franchising», spiega Sissi. Non male dopo appena un mese di attività. Ma cosa avrà di speciale questa stanza della rabbia? Vediamo.
Superata la segreteria/deposito (di mobili da distruggere), mi fanno accomodare nello spogliatoio. L’ambiente è rilassante, le pareti rivestite di legno, sembra un po’ una baita. Viene voglia di sedersi a bere una tisana piuttosto che spaccare tutto. Eppure. Primo indizio che non si tratta di una baita: un portaombrelli pieno di mazze di ferro. Mi sento un po’ inquieta. «Si va dai 2,2 chili di quella per le donne a un massimo di 4 chili per gli uomini più forzuti», spiega Sonia. «Mi dia la meno pesante». «Prima devo vestirla». Il rituale della vestizione: tuta bianca, scarpe anti-infortunio, parastinchi, paragomiti, paracollo, guanti, casco. Risultato, qualcosa a metà fra un Ris di Parma e un’astronauta. «Bisogna fare tutto in sicurezza», spiegano. Giusto. Possiamo cominciare.
Entro nella stanza con passo un po’ impacciato, Sissi e Sonia sono ancora con me. Fa freschino ma mi assicurano che mi scalderò in fretta. La stanza misura circa 15 metri quadri, i soffitti sono alti, le pareti insonorizzate. Qui dentro la gente urla, dice parolacce. Nell’angolo in alto a destra c’è una telecamera. «Dobbiamo riprendere tutto per ragioni di sicurezza e assicurative». Poi c’è un semaforo, che indica quando partire e quando fermarsi. Infondo alla stanza gli oggetti sui quali accanirsi. «Abbiamo degli accordi con chi svuota le cantine e fa i traslochi, ci danno la roba vecchia con il consenso dei proprietari», precisa Sonia. Nel mio caso le vittime designate sono: una sedia, un piccolo comò, una vecchia tv, un mobiletto da ufficio e svariate bottiglie.
Tutto è pronto. Sissi e Sonia mi lasciano sola. La porta alle mie spalle si chiude. Parte una musica metal, il volume è sempre più alto. Scatta il verde. Via. Prima bottiglia in frantumi, i cocci volano ovunque, ma così bardata non posso farmi male. Seconda bottiglia. Terza, quarta… per terra un tappeto di vetri. Distruggere le bottiglie è un gioco da ragazzi. Ora la mazza si abbatte sulla tv. Schermo in mille pezzi. Tocca ai mobili: la sedia cede senza troppa fatica. Il mobiletto da ufficio si accascia al secondo colpo. Via l’anta. Via le mensole. Musica e frastuono. Adrenalina. Resta intatto il comò. È un osso duro. Vorrei che capitolasse, ma conosco i miei limiti. Sfascio le ante e so che oltre non andrò. Infatti mi fermo. Un respiro profondo. Un urlo liberatorio. Tutto intorno un campo di battaglia. Mi appoggio alla parete. Il semaforo è ancora verde, ma so che il mio tempo è scaduto. Guardo la telecamera e faccio il gesto del time out. Dopo qualche secondo arrivano Sonia e Sissi. Sorridono. Dicono che sono stata brava. Non lo so. So invece che mi tremano le gambe e mi sento sfinita. Piacevolmente sfinita. «Dieci minuti qui dentro sono come un’ora di palestra. Quando si finisce ci si sente stanchi ma anche sollevati».
Mentre mi ricompongo e riprendo le mie sembianze di giornalista, Sonia e Sissi mi spiegano che il prossimo appuntamento è nel pomeriggio, quindi hanno tutto il tempo per pulire la rage room e allestirla per il nuovo cliente. «Chi sono i vostri clienti?». «Donne, soprattutto. Ragazze fra i 20 e i 30 anni, in particolare. Amiche, sorelle, colleghe. Arrivano qui sempre un po’ titubanti, poi una volta dentro sembrano Wonder Woman».