«Euforia» ma non troppo
Euforia. Tutti i pregi e i simultanei difetti del cinema italiano d’autore. Abbiamo un’attrice, Valeria Golino, che da qualche anno ha deciso di fare anche la regista. Passi. Il suo esordio – Miele – era più che dignitoso.
Ora, però, Golino replica già i vezzi del precedente: un titolo dolce e ottimista (Euforia) per una storia di malattia e morte. C’è come protagonista l’ex compagno Riccardo Scamarcio, c’è l’attrice del primo film (Jasmine Trinca), c’è la produzione e scrittura dell’amica Viola Prestieri, ci sono le musiche che piacciono alla Golino (tra cui i Nouvelle Vague che piacevano anche a Gianni Zanasi in un film sempre con Valerio Mastandrea, come qui), e ci sono un paio di scene madri da sceneggiatura per salotti che gridano vendetta – ricordatevi il finale con gli uccellini, senza fare spoiler.
Per fortuna, tutto questo apparato di buona borghesia illuminata e di amici portati da casa, viene riequilibrato da una serie eguale e contraria di cose discrete: la chimica tra i due attori protagonisti, innegabile; l’atmosfera ondivaga e malinconica che avvolge un po’ tutte le scene; il delitto morale del ricco che mente e che omette la malattia al fratello povero, cercando con i soldi di ispirare una botta di vita prima della morte; i siparietti ironici che funzionano, anche perché Scamarcio ha una faccia da schiaffi cui voler bene, specie nella lunga sequenza del viaggio a Medjugorje.
Insomma, uno di quei film di cui anche il critico non sa bene che cosa pensare. Che fa venire voglia di mettere in un barattolo le cose positive e in un altro le cose negative, e poi scuoterli per vedere quale dei due sembra più solido. Peccato davvero per l’indulgenza, che s’insinua ovunque per poterla ignorare ed essere più generosi.