‘Ndrangheta, «i clan sono attivi»
«Il processo coinvolge professionisti e imprenditori emiliani, indispensabili per la cosca» Intervista al procuratore Amato: «Da Aemilia si sviluppano nuovi filoni di indagine»
«Il clan è ancora in grado di operare, come sempre quan- do vengono colpite le prime linee interviene chi prima era dietro le quinte». Così il procuratore Amato dopo la storica sentenza di Aemila, «un punto di partenza» e non di arrivo dal quale iniziare «nuovi filoni di indagini» anche grazie ai pentiti. Per il capo della Dda il punto qualificante del processo è il coinvolgimento di tanti imprenditori e tecnici emiliani indispensabili per le attività della cosca.
Procuratore Giuseppe Amato, la ‘ndrangheta in Emilia è ora una realtà certificata dai giudici.
«È l’ulteriore riprova di quanto stabilito in altri procedimenti che si sono sviluppati a partire dagli anni 80, anche se in termini più ridotti. La sentenza attesta una diffusione del fenomeno autonomo rispetto alle cosche presenti in Calabria. C’è questa peculiarità per cui al Nord pur mantenendo i contatti con i territori d’origine, queste strutture si radicano e operano in maniera autonoma, ciò giustifica il fatto che a perseguirle siamo noi sul posto».
Qual è l’importanza della sentenza di Reggio Emilia, oltre naturalmente alla funzione di contrasto?
«A mio parere c’è la dimensione quantitativa degli imputati che qualifica il processo come molto impegnativo, anche perché rispetto alle contestazioni c’è stata una risposta giudiziaria sia in sede di abbreviato che di ordinario molto adesiva alle impostazioni dell’accusa. Ma l’aspetto più significativo paradossalmente non è tanto quello della contestazione di associazione di tipo mafioso, pure accertata, quanto il coinvolgimento in tutti i reati fine di una zona grigia di persone che operavano nel territorio emiliano alcune delle quali, non essendo calabresi, hanno partecipato dall’esterno all’associazione o sono stati coinvolti in quegli illeciti. Dunque la finalità di profitto ha coinvolto nell’attività della consorteria mafiosa persone autonome rispetto alla cosca originaria».
Imprenditori e tecnici divenuti indispensabili per le attività del clan.
«Esatto. Queste operazioni che si sono qualificate con l’interposizione fittizia di beni, i reati fiscali, l’emissione e l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, l’usura e il caporalato, vedono protagonisti
«Ma questi fenomeni non possono essere combattuti solo manu militari»
” L’aspetto significativo del processo è l’apporto dato da imprenditori e professionisti agli illeciti, il clan ha bisogno di questa zona grigia
soggetti del territorio. Accanto agli imprenditori sono stati numerosi i professionisti coinvolti, il che dimostra come la finalità di ottenere profitti illeciti abbia portato a un’adesione senza scrupoli e come ormai per sviluppare il controllo economico del territorio la stessa consorteria non possa più fare da sé. Non c’è ormai da anni il solo brutale controllo del territorio, i clan sono entrati nell’economica con la partecipazione agli appalti, alla contabilità delle aziende e nella loro vendita simulata. Alle cosche servono professionisti, un aspetto che qualifica il processo. Ma le sentenze non bastano per stroncare un fenomeno».
I processi sono un punto di partenza più che di arrivo.
«Non c’è dubbio, stiamo sviluppando le indagini patrimoniali e le misure di prevenzione e dalle dichiarazioni dei collaboratori abbiamo aperto altri filoni. Il lavoro nei prossimi mesi non mancherà. La stessa sentenza ci ha segnalato altre situazioni da approfondire». È corretto dire che queste sentenze ridefiniscono una scala di priorità per le istituzioni?
«Penso che chi si occupa del contrasto e della repressione debba essere in grado di dare una risposta a tutti i fenomeni. Non credo alle priorità, spesso inoltre le indagini sulla criminalità organizzata traggono spunti da fatti che all’inizio non sembrano portare lontano, per questo vanno radicati i magistrati su territori specifici: a volte ci passano davanti reati spia che non vengono subito percepiti come emblematici».
Le contestazioni mosse agli imputati, anche a processo in corso, dimostrano che il clan è ancora in grado di operare. È così?
«È così e non deve meravigliare. Una delle peculiarità dell’associazione è l’intercambiabilità dei ruoli e il coinvolgimento di persone che non emergono dall’accertamento giudiziario perché svolgono un ruolo di seconda fila. Quando il clan è in difficoltà, altre figure prendono il posto di chi è colpito. Questo spiega la necessità dell’istituto del 41bis. Nelle ultime fasi del processo vediamo una evoluzione per cui dal danneggiamento all’estorsione passiamo ad attività squisitamente economiche».
Cosa dovrebbero fare enti e associazioni d’ora in avanti?
«Questi fenomeni non possono essere combattuti sono manu militari, serve una presa di coscienza della società civile e un maggior controllo sui tecnici di cui si servono le cosche. Un’attenzione che io in questi anni ho già avuto modo di vedere».