A Pupi Avati il premio Le Goff
Il regista insignito del Portico d’oro per i suoi studi di storia
Per una volta non si tratta di un premio cinematografico, come i tanti che hanno contrappuntato la carriera di Pupi Avati. Composta da una quarantina di film, iniziata nel lontano 1968 e festeggiata un mese fa con tanti amici nella campagna di Budrio, dove aveva girato all’esordio Balsamus, l’uomo di Satana. Nel giorno del suo ottantesimo compleanno, Avati riceverà domani un riconoscimento accademico per i suoi studi storici, il premio «Il portico d’oro - Jacques le Goff», intitolato al grande medievista francese, che la «Festa della Storia» di Bologna assegna ogni anno. Un premio che ad Avati fa particolarmente piacere, anche alla luce della sua insofferenza giovanile verso istituzioni come scuola e università, nonostante la laurea in Scienze politiche. Domani alle 17, nella Sala Stabat Mater dell’Archiginnasio, dopo un’introduzione dello storico Rolando Dondarini, il premio ad Avati sarà consegnato dal Rettore dell’Alma Mater Francesco Ubertini. Già due anni fa il regista aveva ricevuto il «Premio Francovich» per la sua opera di divulgazione della storia del Medioevo, con particolare riferimento al suo film Magnificat. Uno dei quattro titoli scelti dal regista con il direttore della Cineteca di Bologna, Gian Luca Farinelli, per essere restaurati. Gli altri sono Le strelle nel fosso, Noi tre e “L’arcano incantatore, che si vedranno la prossima estate in piazza Maggiore. Negli anni passati il premio era stato assegnato a storici di prestigio come Franco Cardini, Louis Godart e Alessandro Barbero e a divulgatori quali Alberto Angela e Giovanni Minoli. Avati è però il primo regista a riceverlo, a conferma, come ha ammesso lui stesso, delle «due passioni parallele che convivono nei miei film. Perché la storia, maiuscola o minuscola, si intreccia sempre con le vicende degli uomini. Anche le più private».
Come si potrà vedere anche nel suo nuovo film di prossima uscita, Il signor Diavolo, tratto dal suo omonimo romanzo. «Il finale ha spaventato anche noi, è davvero demoniaco», ha confessato Avati a proposito del film scritto, oltre che da lui, dal fratello Antonio, suo storico produttore, e dal figlio terzogenito Alvise, animatore che ha lavorato in Avatar, Transformer e King Kong.
Il film ambientato nel Veneto degli anni Cinquanta e girato tra Rovigo e Comacchio, con tra gli interpreti gli immancabili Gianni Cavina, Alessandro Haber e Lino Capolicchio, è un ritorno alle venature gotiche de La casa delle finestre che ridono, cult del 1976. «Alla mia età - ha confessato il regista bolognese avevo voglia di tornare alla nostalgia del cinema con cui ho cominciato a misurarmi da bambino. Volevo tornare alle cose che mi spaventavano, quando credevo ci fosse il male assoluto, in quell’atmosfera pre-conciliare dell’Italia anni Cinquanta dove i bambini erano immersi tra paura e sacralità».
Una rievocazione di quel mondo contadino arcaico degli anni Cinquanta che si sentiva come punito dalla grande alluvione del Polesine, intriso di religione e di superstizione e dove tutto sembrava possibile, persino l’intervento del diavolo. L’instancabile Avati guarda però già avanti, ai suoi prossimi progetti. Come la miniserie horror-gotica per Sky Floating Coffins (Bare galleggianti), ambientata ancora nella Bassa ferrarese, e il film Lei mi parla ancora, dal libro di Giuseppe Sgarbi dedicato alla moglie.
Scomparso in gennaio, il padre di Vittorio ed Elisabetta Sgarbi, per anni farmacista tra Veneto ed Emilia, sarà interpretato dall’ ottantun enne Johnny Dorelli. Per Avati, insomma, la storia sembra correre proprio lungo i binari cari a Le Goff, quelli della memoria. Da tempo il regista sta anche coltivando un biopic su Dante Alighieri per i settecento anni della morte del poeta che cadrà nel 2021. Con il sostegno dell’Accademia della Crusca e dei maggiori dantisti italiani e sulla scia tratteggiata da Boccaccio nel suo «Il Trattatello». Nel 1350 Boccaccio si recò a Ravenna e lì sentì tante persone che avevano conosciuto Dante, avviando una sorta di indagine sulla vita del Sommo Poeta. Quello scritto, secondo Avati, grande appassionato di biografie sia letterarie che cinematografiche, «è già un film, con una infinità di informazioni che senza il lavoro di Boccaccio non avremmo avuto».