Il Cantico dei cantici di Latini inno all’amore e alla solitudine
TEATRO Sul palcoscenico dell’Arena del Sole la produzione di Fortebraccio teatro
Mancava da Bologna dal 2012, Roberto Latini. Da quando per insensibilità delle istituzioni si concluse l’impresa della direzione del teatro San Martino, uno spazio che ha svecchiato il clima teatrale della città, portando molti artisti delle ultime generazioni.
Da allora, abbiamo inseguito i suoi spettacoli in giro per l’Italia, fino al Teatro comico di Goldoni sul palcoscenico del Piccolo di Milano, una sorta di consacrazione vissuta come sempre con segno graffiante.
Bene hanno fatto perciò la Soffitta, il teatro dell’Università, e Ert Fondazione a organizzare un «corso di recupero» con gli ultimi tre spettacoli creati come assoli, sempre con le luci di Max Mugnai e i suoni di Gianluca Misiti, capaci di allargare le pareti del teatro aprendo scenari immaginativi vorticosi.
Indossa una parrucca, Latini, nel Cantico dei cantici, produzione del suo Fortebraccio Teatro. In un opaco crepuscolo espressionista giace su una panchina, abbandonato come un barbone dell’esistenza. Poi scatta il flusso di parole, dal testo biblico.
Le frasi col loro ritmo si incuneano nel movimento corno forza del fuoco del desiderio che prova a contrastare l’assenza, lo svanire delle cose, la morte.
Barcolla, quel «senza casa», nell’alzarsi, trascinato dall’alnichino col o forse più propriamente dalla passione, tra suoni avvolgenti, echi, stridori e dolcezze sonore. Si siede sotto freddi bagliori a un banco di regia radio, con una testa-maporeo, con parrucca verde in primo piano, l’amato bene in questo nostro mondo senza echi biblici, di carabattole da ipermercato.
Le parole sono amplificate, ingolate, raschiate, ingigantite come voce d’orco; i suoni si amplificano, come un ronzio interiore, quando le cuffie calzano sulle orecchie, per diventare flebili quando vengo- allontanate sul tavolomixer.
Ogni dimensione sonora è esplorata, la voce nuda, il sussurro, l’ansimo, da un attoreorchestra che per questa prova, con Misiti, ha vinto l’Ubu, l’Oscar del teatro italiano. La voce è tentativo di avvicinamento all’amata in un mondo degradato dove un albero viene esibito furiosamente come fallo.
L’amore è vuoto, è esplosione che riserva naufragio esistenziale, distanza (la stessa degli occhi che bramano e non toccano), solitudine in un vuoto cosmico riempito di poveri oggettucoli. Lo spettatore è frastornato, ammirato, commosso, rapito in una strana regione dell’esistenza, interiore, vicina e lontanissima.
Le altre due opere presentate, sempre in recita unica, in una microrassegna che avrebbe meritato più date, sono state Giganti della montagna e Sei, ispirate a Pirandello, con Latini nella prima e con il bravo PierGiuseppe Di Tanno nella seconda, percorsi allucinati nelle inquietudini delle opere dell’agrigentino, misurate con i nostri tempi di virtualità e di realtà adulterate.