«L’ITALIA GRANDE SOLO SE RESTA IN EUROPA»
La ricetta economica di Reichlin: in Emilia-Romagna sopravvive chi fa innovazione
Il valore dell’Europa, la moneta unica, i nuovi mercati e la ricerca. La «ricetta» di Lucrezia Reichlin per restare competitivi. Anche in Emilia-Romagna.
Lucrezia Reichlin è professore di Economia alla London Business School e, per questo anno accademico, titolare della Chaire européenne al Collège de France. Giovedì ha tenuto a Parigi la sua lezione inaugurale dal titolo «La Banca centrale europea (BCE) e la crisi dell’euro» (pubblicata da
Le Monde); il giorno dopo era qui, a Bologna, per uno dei principali eventi della Biennale della Cooperazione. L’abbiamo incontrata per una conversazione sull’Europa, l’euro e non solo.
Partiamo dal tema che alla professoressa Reichlin sta molto a cuore: che cosa succederebbe se l’Italia uscisse dall’euro?
«L’uscita avrebbe costi enormi, ma anche astraendo da questi ultimi porrebbe il Paese di fronte a due giganteschi problemi. Il primo: siamo un Paese piccolo rispetto al mondo, che è oggi pienamente integrato grazie alla circolazione delle merci e dei capitali. Saremmo esposti a fluttuazioni molto ampie dei tassi di cambio determinati dalla politica monetaria dei Paesi più grandi. In quel caso sì che saremmo davvero dipendenti totalmente dalla politica monetaria della Germania».
Ci spieghi meglio...
«Quando cambia l’orientamento della politica monetaria della banca centrale americana, si verificano grandi spostamenti di capitali tra Usa e Paesi emergenti. Questi spostamenti sono motivati dai differenziali di tassi di interesse e provocano ampie fluttuazioni dei tassi di cambio a cui le banche centrali dei Paesi emergenti sono costrette a reagire perdendo quindi l’indipendenza della decisione delle politiche monetarie rispetto a Washington. E i flussi di capitale sono oggi enormemen- te superiori a quelli delle merci. L’eurozona è un’area finanziaria grande, l’Italia ne è parte a pieno titolo. La politica monetaria si decide insieme: il governatore della Banca d’Italia siede nel consiglio direttivo della Bce. Abbiamo stabilità, dovuta in primis alle dimensioni (il Pil dell’Ue è simile a quello degli Usa, entrambi sfiorano i 20 trilioni di dollari). Tuttavia la stabilità non è garantita se al livello nazionale si mette continuamente in discussione tutta l’architettura europea».
Lei ha prospettato due problemi derivanti, per l’Italia, da un’ipotetica uscita dall’euro: siamo così giunti al secondo. Qual è?
«C’è una corrente di pensiero che vede in quest’uscita la possibilità di ritornare alle svalutazioni competitive (quelle della lira) di decenni ormai lontani. Da allora molte cose cono cambiate: i prodotti italiani sono venduti nel mondo per la loro qualità, per l’alto valore aggiunto che incorporano, frutto del talento degli imprenditori e della bravura della mano d’opera. Di più: il commercio internazionale è organizzato nelle cosiddette
supply chains in cui beni finali e intermedi vengono prodotti in diverse regioni del mondo. Tutto ciò rende gli effetti di cambio ambigui: all’interno di un bene esportato ci sono, infatti, molte parti importate (un meccanismo che diluisce fino quasi ad annullare l’impatto del cambio)».
Vale anche per l’EmiliaRomagna?
«Penso proprio agli imprenditori di questa regione, protagonista di una rimonta eccezionale. È sopravvissuto chi ha innovato. Solo se l’Italia fosse il Vietnam l’argomento della svalutazione potrebbe essere messo sul tavolo».
Restiamo allora sui risultati dell’economia emilianoromagnola, in particolare sul suo record italiano nelle esportazioni pro-capite (oltre 12.500 euro a testa): il neo-protezionismo è un rischio reale per un’economia così aperta al mondo?
«Lo è perché siamo in presenza di una Cina aggressiva e di Stati Uniti un po’ allo sbando, ma pur sempre forti. Come europei, per avere un posto al tavolo dei grandi, dobbiamo stare tutti insieme. È un continente dalle impareggiabili tradizioni culturali, caratterizzato da un grado elevato di coesione sociale se si confronta ad altre aree del mondo. È assurdo litigare. Certo, lo stare insieme richiede regole, che non vanno ridicolizzate. L’Europa unita ha richiesto decenni di sforzi. Si possono criticare alcuni meccanismi, io stessa non mi sono mai sottratta a una discussione proattiva sulle riforme necessarie. Ma come si fanno a negare gli enormi passi in avanti compiuti? I tassi sul finanziamento del debito pubblico sono molto più bassi oggi che prima dell’euro; c’è il mercato unico con la libertà di circolazione dei fattori della produzione».
Lei ha lasciato l’Italia dopo la laurea a Modena; dopodiché, New York per il PhD (Doctor of Philosophy, corrispondente al dottorato di ricerca, ndr); Parigi, Bruxelles, Francoforte e ora Londra. Da migrante di successo che cosa si sente di dire ai tanti giovani italiani che studiano e insegnano all’estero?
«Di giovani italiani molto bravi ce ne sono tanti in giro per l’Europa. Nei bandi internazionali per la ricerca scientifica, per esempio, molto spesso primeggiano i ricercatori italiani ma con progetti messi a punto e, poi, realizzati in università straniere. In quelle italiane si fa più fatica a lavorare sulla frontiera della ricerca. Ecco, ai più giovani dico di tenere gli occhi aperti perché le opportunità per un rientro possono capitare».
Come si possono negare gli enormi passi avanti fatti con l’Unione europea?
” La ricerca Nei bandi internazionali per la ricerca scientifica molto spesso primeggiano i ricercatori italiani con progetti messi a punto da università straniere. Ai più giovani dico di tenere gli occhi aperti, perché le opportunità per un rientro possono capitare