Boniciolli, il gran ritorno «Mi davano per malato, in 4 mesi salvo Pesaro»
Domani il rientro in panchina. «Fortitudo in A1? Mie le basi»
Matteo Boniciolli, come ci si sente di nuovo in sella, a Pesaro, nove mesi dopo l’ultima panchina con la Fortitudo?
«Benone. Felice di tornare a fare il mio mestiere, in una città che respira basket come Bologna. Anche se qualcuno diceva in giro che avevo un tumore, o forse ci sperava. Mi ero ripreso da un pezzo e mi stavo semplicemente guardando attorno».
Cos’ha fatto in questi mesi?
«Tante cose. Viaggiato, studiato, aiutato mio figlio a trasferirsi a Roma alla Stella Azzurra. Sono stato anche in America, dove ho visto di tutto, NBA, D-league, college, high school, pure il nostro futuro fenomeno Nico Mannion. In estate nessuna opportunità interessante di tornare ad allenare, in inverno sono stato molto vicino a una squadra italiana, ma non si è trovato l’accordo. Poi ha chiamato Ario Costa, con cui avevo già parlato tempo fa: nella vita a Pesaro si può dire di no una volta, non due».
Telefonate e messaggi da Bologna?
«Moltissimi. Tra i primi Pavani, che vuol venire a vedere la mia prima partita, domani. E tanti altri, dentro e fuori la
” L’unico rimpianto: aver affrettato il rientro l’anno scorso. Il mio fisico mi ha ricordato che avevo 56 anni quando sono svenuto
A Bologna mi restano tante amicizie vere, e la stima di chi ha capito che enorme lavoro è stato fatto in questi anni».
La Effe di quest’anno l’ha seguita?
«Sento spesso Martino e Comuzzo, amici, prima che miei passati assistenti. Ad Antimo auguro ovviamente di fare meglio di quel che ho fatto io, portando fino in fondo questo straordinario cammino e completando l’opera. Alla quale penso di aver contribuito, costruendo delle buoni basi».
Rimpianti?
«Quello di essere stato male, e di aver affrettato il rientro, l’anno scorso: ho fatto finta di dimenticarmi di avere 56 anni, il mio fisico me l’ha ricordato con lo svenimento nello spogliatoio di Forlì. Non l’avessi fatto, avrei finito la stagione. Certo, mi sarebbe piaciuto esserci io, a giocarmi il ritorno in A e fare la storia, forse sarebbe anche stato giusto, ma la vita è così. Tornando a fare questo mestiere so comunque di essere un privilegiato».
Se sarà A1, sarà anche un po’ sua?
«Natura non facit saltus,
disse uno che aveva studiato. Ho la presunzione di pensare che le radici di questo straordinario lavoro vengono da lontano. In quattro anni, ridendo e scherzando, tra finali e semifinali, abbiamo portato alla società tre anni di sold-out, cioè 1,5 milioni di incassi l’anno. Senza Myers e Fucka, ma con Raucci e Quaglia. La gente però usciva contenta: ricordo una partita con Treviso in cui loro a un certo punto buttavano la palla fuori perché non ce la facevano più, asfissiati dalla nostra difesa. E col lancio in A1 di Candi e Campogrande, soldi nelle casse del club. Partendo dalla quarta serie, col palazzo a metà. Uno col mio curriculum era impensabile in B2, una pazzia che si poteva fare solo per la Fortitudo»
Un po’ una pazzia anche prendere Pesaro?
«Forse, ma al contrario del famoso personaggio di Nanni Moretti non mi sono mai chieFortitudo. sto se mi si nota di più se vado o non vado a una festa. Io vado dove penso sia giusto andare, e Pesaro è un patrimonio del basket italiano in difficoltà che va salvato, stringendo i denti oggi perché magari qualcun altro la riporti in alto domani. Come è stato alla Fortitudo, o a Trieste: anni di salti mortali per tenere accesa la fiammella, poi un giorno magari arriva il signor Alma e si può tornare a far le cose in grande».
Prossimo obiettivo, ripresentarsi al PalaDozza l’anno prossimo con Pesaro, ovviamente in A1?
«Qui hanno fatto un grande sforzo economico per accontentarmi, ma pensiamo solo ai prossimi quattro mesi. Anch’io per l’anno prossimo avevo già in piedi qualcosa all’estero, ma meglio non allargarsi. Oggi esiste solo questa missione salvezza, che sarà durissima. E la prima partita con Torino è già una roba da vita o morte».
Come Churchill ha promesso solo sangue, sudore e lacrime.
«Qui sono quello che deve ribaltare il tavolo. Chiamato per dare qualche sano calcio nel sedere a qualcuno».