I ragazzi del ‘99, poi nulla Un «patto» calcistico che Bologna ha dimenticato
L’idea sarebbe geniale: scovare giovani talenti in giro per il mondo, acquistarli spendendo il giusto, valorizzarli in casa giocando un calcio divertente capace di togliere soddisfazioni, monetizzare le cessioni dei talenti ai grandi club. Ma bisogna saperlo fare. Occorrono risorse economiche, tecniche e culturali. Se ci riescono in pochi, un motivo c’è. L’alternativa è il calcio di provincia, al quale il Bologna appartiene ormai da così tanti decenni da rendere complesso immaginarlo altrove. Era il calcio di Carlo Mazzone e dei ragazzi del ‘99 — intesa come stagione 1999 — autori di quella che ancor oggi rimane l’annata più bella e avvincente della storia rossoblù dallo scudetto del ‘64.
La ricetta fu semplice. Giuseppe Gazzoni Frascara, galantuomo ricco e appassionato, affidò un gruppo granitico creato da Renzo Ulivieri al Magara. Lui, già trentennale esperienza sui campi, trovò la squadra perfetta: veterani ai quali non dover insegnare nulla, qualità sufficiente per giocare a pallone, attaccamento. Si diceva che Mazzone gestisse, invece di allenare. E quel gruppo, a noi apparso così compatto, aveva i suoi senatori, i suoi clan e i suoi veleni — scoppiarono in seguito, ma c’erano — come tutte le squadre. Il più giovane dei titolari era Jonathan Binotto, 24 anni, non una scommessa ma uno dei migliori talenti dell’under 21 azzurra che iniziò a vincere spesso e ovunque. Ne fu anche capitano. Gli altri, da Giancarlo Marocchi — campione d’Europa con la Juve — agli svedesi Kenneth Andersson e Klas Ingesson (volato in cielo troppo presto) avevano alle spalle presenze internazionali, semifinali ai Mondiali, successi. Mazzone portò Massimiliano Cappioli, suo uomo, contribuì alla ricostruzione di Beppe Signori, avversario di tanti derby a Roma.
In quegli anni eravamo tutti dalla stessa parte, noi che oggi dibattiamo anche con ferocia sulle vicende di questo avvilente Bologna. Eravamo in curva, anche. Quella squadra aveva stipulato un patto calcistico con la città: non vi promettiamo programmi né progetti, andiamo in campo e giochiamo a calcio. Con l’età media superiore ai trent’anni e un allenatore che aveva doppiato la boa dei sessanta, quali promesse avrebbero potuto fare? Le urla di Mazzone avevano sostituito le sagaci battute di Ulivieri nel cuore della gente, e andava bene così. Quella squadra vinse l’Intertoto, volò in semifinale di Coppa Uefa — e fu privata della finale solo con un rigore-truffa acciuffato da Florian Maurice: seguì rissa — e arrivò tra le prime quattro anche in Coppa Italia, meritandosi lo spareggio (poi vinto) contro l’Inter per tornare in Europa anche nella stagione successiva. Ma senza Mazzone.
Il direttore sportivo Oreste Cinquini fu il primo a tentare un’altra via, quella giovane. Non funzionò e forse bisogna ipotizzare che per Bologna sia incompatibile. L’ad Claudio Fenucci tre anni fa teorizzava il settore giovanile futuristico e la necessità di software e iPad per gli osservatori. Poi la Primavera è retrocessa e la prima squadra sta affogando. La città ha dimenticato il patto dei ragazzi del ‘99 e le nuove generazioni non lo hanno mai conosciuto. Ma probabilmente, quel calcio verace e ricco di buon senso qui resta ancora la strada maestra.