Martini racconta la Bologna anni 70 «Una città più vera»
Alla soglia dei 50 anni Virginio, amministratore delegato di un’azienda meccanica, si ritrova a dover fare i conti con il suo passato. E con una figura paterna che si professava comunista e che gli ha inculcato principi mai pienamente condivisi. Accade nel nuovo romanzo del bolognese Luca Martini, Mio padre era comunista (Morellini), che tra una citazione di Bukowski e una di Bob Dylan, riprende anche un verso della celebre Qualcuno era comunista di Giorgio Gaber. Il 47enne scrittore presenterà il suo romanzo di formazione ambientato a Bologna il 14 febbraio alle 18 all’Ambasciatori.
Martini, da dove nasce questo romanzo?
«Da un racconto di qualche anno fa, che aveva vinto il Premio Loria a Carpi. Era capitato in mano a Paolo Cognetti, a cui era piaciuto. Mi aveva però invitato a parlare anche di ciò che non si vedeva e la sua frase mi è frullata in testa per sette anni. Alla fine l’ho riscritto praticamente tutto, a parte la scena iniziale e quella finale. Ora sono proprio curioso di sentire cosa ne penserà Cognetti».
Nel libro c’è una dedica a suo padre, di cui precisa che non è mai stato comunista.
«È vero, anche se io sono cresciuto in ambienti di sinistra. Ma non a casa. Bologna è quella degli anni 70. Anni ineguagliabili e terribili, con tanti sogni e voglia di cambiare. Racconto quei tempi e un’ideologia malata, folle se insegnata a un bambino. Ma oggi, per un altro verso, siamo arrivati a un punto zero di ideali e di utopia».
Cos’è che non ha funzionato?
«Il limite è stato provare a mettere in pratica un’idea meravigliosa in un mondo consumistico. Il benessere ha fatto perdere il valore delle idee. Il mio protagonista, Virginio, si trova a dover affrontare, nell’azienda che guida, la richiesta di diritti per i quali aveva già combattuto il padre Armando. Arriverà a capire che probabilmente lui non ha vinto e che forse hanno un po’ perso tutti e due».
Cosa le manca di più della Bologna di quel tempo?
«Forse i locali brutti ma autentici. Oggi Bologna è una città meravigliosa, più aperta, con tanto turismo, ma un po’ finta. Anche i locali mi sembrano tutti uguali». In che senso?
«Mi sembra che offrano tutti le stesse cose, come se fossimo a Roma o Milano. Mi manca l’autenticità che si respirava camminando per il centro sino a vent’anni fa e a proposito di locali mi piacerebbe che ci fosse meno gente fuori ma più vera dentro».