La libertà sovversiva dei Kataklò «Noi ponte tra danza e sport»
Ieri a Sanremo, stasera al Celebrazioni con «Play», lo show che ha girato il mondo
Chi ieri si è sintonizzato sul Festival di Sanremo, li ha visti volteggiare, nella serata dei duetti, sull’esibizione di Arisa, con Tony Hadley.
E stasera alle 21 il Teatro Celebrazioni accoglie i Kataklò con uno spettacolo che ha girato il mondo e ancora oggi, a distanza di undici anni, è tra i punti fermi della compagnia. Stiamo parlando di Play. Basta la parola. Quella «scossa all’anima» — così fu definito il lavoro — che immergeva lo spettatore in un mondo parallelo, ci mostrava in tutta la sua immediatezza e freschezza la visionarietà di una coreografa e regista come Giulia Staccioli. Ex ginnasta di primissimo livello (tre volte campionessa italiana assoluta di ginnastica ritmica negli anni 80), appena abbandona l’attività ci mette un attimo a capire che gli esercizi con la palla o il nastro erano un’ottima base per ripartire. Si trasferisce a New York, studia agli Alvin Ailey Studios, si fa le ossa con i Momix allora guidati dal migliore di quel genere, Moses Pendleton, e una volta in Italia, a metà anni 90, crea la Kataklò Athletic Dance Theatre, primo esempio di physical theatre nel nostro Paese. Un nome ambizioso: in greco antico significa «io ballo piegandomi e contorcendomi».
Cerca nuovi ballerini anche nella ginnastica. Il taglio che vuole imprimere è subito chiaro: fisicità e linguaggio del corpo. E qui sta l’innovazione di Giulia Staccioli: creare un ponte tra due mondi, la danza e lo sport, diffidenti l’uno verso l’altro. «Hanno difficoltà a comunicare, eppure utilizzano lo stesso strumento, il corpo — ha spiegato più volte — solo che uno, lo sport, è agonismo, la danza è interpretazione. Volevo armonizzare i due gesti».
— ideato nel 2008 per rappresentare l’Italia alle Olimpiadi della Cultura di Pechino, quindi protagonista di un lungo tour in Brasile e in Europa — è una sorta di abc del percorso dei Kataklò e molto legato al vissuto di Giulia. Sulle musiche new age ed evocative di Ajad composte
Sette danzatori su oggetti di uso comune costruiscono storie e sperimentazioni
appositamente, sette danzatori in scena attraverso oggetti di uso comune costruiscono storie e sperimentazioni capaci di toccare le corde dei più svariati sentimenti umani. Sono biciclette, una porta da calcio, una racchetta da tennis, palloni, occhiali e scarponi da sci. Segnali dal mondo dello sport che dal nero del palcoscenico sembrano esplodere in una miriade di forme e colori. Se un ordine c’è, corre il rischio di perdersi per poi ricrearsi. E la coreografa-campionessa, che ha sempre salda quella consapevolezza di fatica e sacrifici dietro ogni successo sportivo, con questi elementi gioca, offre diversi livelli di lettura, non senza ironia leggera, irriverente, vivace.
Ci immergeremo in un universo acquatico di creature che guizzano come sirene. Ci faremo inghiottire da atmosfere lunari. Sequenze beffarde, drammatiche, poetiche si intrecciano, restituendoci ora cartoline un po’ sfocate di sport, di luoghi lontani, di altre epoche, ora visioni nuove, sfumature di discipline liberate dai limiti e le tensioni delle competizioni agonistiche. Chiamiamola, se vogliamo, alchimia tra energia dirompente del gesto atletico e armonia della danza.
Come si può intuire, dai flash che vi abbiamo descritto, Play non è facilmente classificabile. È dentro le regole ma tende a sovvertirle. È elegante e attraversa la follia. Eppure, il linguaggio è comprensibile, semplice. Ci sono dei danzatori che si sfidano e sperimentano i propri limiti. C’è un traguardo e per raggiungerlo serve sudore. E raccontare la propria storia, forse anche «solo» attraverso il gesto atletico, è sempre una forma di libertà che emoziona tutti.