Vite invisibili: la storia di «F.» in Italia da vent’anni, homeless
IN BREVE «F. Perdere le cose», produzione di Kepler-452 per Vie Festivale e Ert
«Io sono io»: lo ripeteranno per tutto lo spettacolo come un mantra, un’ancora di salvezza, una domanda su sé stessi e una sfida al mondo ostile. All’inizio la scena di F. Perdere le cose è vuota. Per qualche minuto. Con luci azzurre di sogno o di notte metropolitana ansiogena, inventate, come lo spazio scenico, dal mago Vincent Longuemare, autore delle atmosfere di spettacoli memorabili come L’isola di Alcina del Teatro delle Albe (2000).
L’assenza sarà riempita da voci, provenienti dalla platea, poi da corpi. Tutta questa nuova produzione per Vie Festival e Ert di Kepler-452 - la compagnia bolognese che porta in scena persone trovate nel mondo «reale», con le loro storie, i loro traumi - si incentra sul vuoto, sulla perdita, e sugli artifici che proviamo a darci per confinare le nostre angosce. Come i muri, che qui assumono la forma metaforica di una parete mobile che ogni tanto si serra, separando lo spazio anteriore da quello profondo della scena, materializzando l’idea che esistono zone inaccessibili a tutto, perfino alla cosiddetta realtà, perfino alla voglia di cercare, di incontrare, di trovare qualcosa di noi nell’altro.
raccontano in scena Paola Aiello, bravissima, e Nicola Borghesi, dalla comunicativa contagiosa, con l’assistenza dietro le quinte del dramaturg Enrico Baraldi e la regia dello stesso Borghesi? La storia, o la non storia, di F., incontrato in un dormitorio, un senza casa, che scopriremo essere anche «bruciato», cioè nero, dell’Africa profonCosa da, in Italia da più di vent’anni. Ma, ricordatevelo sempre: «io sono io».
Non si parla di immigrazione, ma si narra l’incontro con una persona. Che, a differen- za di Nicola, di Paola, che sciorinano dati anagrafici e fiscali, non ha altro che quella lettera puntata: è un invisibile, ha perso il lavoro e non ha più documenti, e quindi non può avere un’assicurazione e andare in scena.
Lo spettacolo è costruito cercando di rendere F. presente, senza poterlo portare in palcoscenico. Sembra un «personaggio in cerca d’autore», già tutto scritto, nel suo destino come nel copione, che gli attori ci ricordano, non stanno improvvisando: le battute, gli interventi di F. in assenza, prendendo, come uno sciamano, corpo e voce di una spettatrice, apparendo in audio da una cassa o in qualche video dal ponte di Galliera, sopra quel luogo di fughe, anche solo immaginarie, che è la stazione, con il muro-sipario di ferro che si serra, si riapre, rivela spiragli.
Non si può raccontare troppo ciò che avviene per non togliere la sorpresa, che diventa fragorosa nel finale. Ci sono ripetizioni, ingenuità, ma anche una calcolatissima struttura, affascinante e avviluppante. Veramente, sembra un Pirandello senza accademismi o citazioni, vissuto, oggi. Il voto, per la passione e la gioventù dei Kepler sarebbe 10, più riflessivamente forse un 7,50 per gli esiti in parte ancora acerbi.