LA MEMORIA SPEZZATA
Quella sul 25 Aprile è una polemica fastidiosa e stucchevole: come quasi tutte le polemiche che dividono per principio — e non sul merito — maggioranza e opposizione (e pure la maggioranza al suo interno, come da tradizione da quando c’è questo governo). E come tutte le occasioni per posizionarsi senza ragionare sul perché ci si posiziona: in cui lo scopo non è dire, ma dirsi. È stucchevole perché si ammanta di alti principi, usando argomenti e strumenti bassissimi: quasi nessuno crede davvero in ciò che dice, ma l’importante è, appunto, ribadirlo. È fastidiosa perché ormai è un ronzare ripetitivo (ogni anno uguale: solo che sa sempre più di già sentito) e sostanzialmente senza scopo. Cosa festeggiamo il 25 Aprile? Simbolicamente, la liberazione dal fascismo (che in realtà sarà acquisita solo con la fine della guerra, di lì a poco). È giusto festeggiarla? Non c’è dubbio. Si chiude con essa la pagina buia del totalitarismo fascista che aveva conculcato le libertà, represso le opposizioni, perseguitato i dissenzienti.
Eche aveva perseguitato gli ebrei (giusto perché non ci si limiti a dire — come fosse cosa minore — che, sì, il fascismo ha sbagliato a dichiarare guerra e approvare le leggi razziali, ma «ha fatto anche cose buone»). E si pongono le basi per la nascita dell’attuale Repubblica (che però ha già la sua festa, il 2 Giugno). C’è chi non la vuole ricordare perché nostalgicamente simpatizzante del fascismo: e questi si possono persino capire. C’è chi invece non vuole prendere posizione per accaparrarsi le simpatie dei menefreghisti — chi non distingue tra valori fra loro contradditori — che sono sempre stati legione. Ma occorre prendere atto del fatto che non si è stati capaci di trasmettere l’importanza della sua memoria: sono anni ormai che per molti, e soprattutto i più giovani, non significa quasi più nulla, non trasmette emozioni, e tanto meno invita alla partecipazione di piazza. E questo non è dovuto solo al fatto che man mano muoiono coloro che della liberazione sono stati testimoni. Anche chi vi partecipa, infatti, l’ha quasi sempre fatto per testimoniare un contro, più che un pro: trovarsi il nemico del momento, ed esibire un’appartenenza (sotto le proprie bandiere di partito, o quella dell’ANPI, in teoria trasversale, ma spesso usata con motivazioni di parte), più che rivendicare un’eredità comune (sotto la bandiera italiana) — dividere, quindi, anziché unire. Tanto è vero che, dopo un lungo declino, la festa del 25 Aprile si è improvvisamente rivitalizzata, in termini di partecipazione, durante i governi Berlusconi, e come momento di aggregazione di chi si sentiva in opposizione a essi. Tuttavia il declino è un destino comune di molte feste, man mano che ci si allontana dalle ragioni della loro istituzione. Il Primo Maggio, una volta occasione di orgoglio operaio e di grandi piazze, oggi è ridotto a un concertone trasmesso dalla tv pubblica. L’8 marzo, data storica del movimento delle donne, si limita alla distribuzione di mimose e alle pizzate tra ragazze, magari con lo sconto in discoteca e lo spogliarello maschile. Ma anche feste istituzionali come il 4 Novembre o il 2 Giugno si ricordano per la presenza delle autorità civili e militari sempre meno attorniate di pubblico. Il 25 Aprile non fa eccezione: e fa notizia non in sé, ma per le polemiche che, sempre più stancamente, suscita. Forse è davvero il caso di trovare un altro modo di fare memoria. O accontentarsi di un alzabandiera in presenza del sindaco. Finché dura.