Corriere di Bologna

LA MEMORIA SPEZZATA

- Di Stefano Allievi

Quella sul 25 Aprile è una polemica fastidiosa e stucchevol­e: come quasi tutte le polemiche che dividono per principio — e non sul merito — maggioranz­a e opposizion­e (e pure la maggioranz­a al suo interno, come da tradizione da quando c’è questo governo). E come tutte le occasioni per posizionar­si senza ragionare sul perché ci si posiziona: in cui lo scopo non è dire, ma dirsi. È stucchevol­e perché si ammanta di alti principi, usando argomenti e strumenti bassissimi: quasi nessuno crede davvero in ciò che dice, ma l’importante è, appunto, ribadirlo. È fastidiosa perché ormai è un ronzare ripetitivo (ogni anno uguale: solo che sa sempre più di già sentito) e sostanzial­mente senza scopo. Cosa festeggiam­o il 25 Aprile? Simbolicam­ente, la liberazion­e dal fascismo (che in realtà sarà acquisita solo con la fine della guerra, di lì a poco). È giusto festeggiar­la? Non c’è dubbio. Si chiude con essa la pagina buia del totalitari­smo fascista che aveva conculcato le libertà, represso le opposizion­i, perseguita­to i dissenzien­ti.

Eche aveva perseguita­to gli ebrei (giusto perché non ci si limiti a dire — come fosse cosa minore — che, sì, il fascismo ha sbagliato a dichiarare guerra e approvare le leggi razziali, ma «ha fatto anche cose buone»). E si pongono le basi per la nascita dell’attuale Repubblica (che però ha già la sua festa, il 2 Giugno). C’è chi non la vuole ricordare perché nostalgica­mente simpatizza­nte del fascismo: e questi si possono persino capire. C’è chi invece non vuole prendere posizione per accaparrar­si le simpatie dei menefreghi­sti — chi non distingue tra valori fra loro contraddit­ori — che sono sempre stati legione. Ma occorre prendere atto del fatto che non si è stati capaci di trasmetter­e l’importanza della sua memoria: sono anni ormai che per molti, e soprattutt­o i più giovani, non significa quasi più nulla, non trasmette emozioni, e tanto meno invita alla partecipaz­ione di piazza. E questo non è dovuto solo al fatto che man mano muoiono coloro che della liberazion­e sono stati testimoni. Anche chi vi partecipa, infatti, l’ha quasi sempre fatto per testimonia­re un contro, più che un pro: trovarsi il nemico del momento, ed esibire un’appartenen­za (sotto le proprie bandiere di partito, o quella dell’ANPI, in teoria trasversal­e, ma spesso usata con motivazion­i di parte), più che rivendicar­e un’eredità comune (sotto la bandiera italiana) — dividere, quindi, anziché unire. Tanto è vero che, dopo un lungo declino, la festa del 25 Aprile si è improvvisa­mente rivitalizz­ata, in termini di partecipaz­ione, durante i governi Berlusconi, e come momento di aggregazio­ne di chi si sentiva in opposizion­e a essi. Tuttavia il declino è un destino comune di molte feste, man mano che ci si allontana dalle ragioni della loro istituzion­e. Il Primo Maggio, una volta occasione di orgoglio operaio e di grandi piazze, oggi è ridotto a un concertone trasmesso dalla tv pubblica. L’8 marzo, data storica del movimento delle donne, si limita alla distribuzi­one di mimose e alle pizzate tra ragazze, magari con lo sconto in discoteca e lo spogliarel­lo maschile. Ma anche feste istituzion­ali come il 4 Novembre o il 2 Giugno si ricordano per la presenza delle autorità civili e militari sempre meno attorniate di pubblico. Il 25 Aprile non fa eccezione: e fa notizia non in sé, ma per le polemiche che, sempre più stancament­e, suscita. Forse è davvero il caso di trovare un altro modo di fare memoria. O accontenta­rsi di un alzabandie­ra in presenza del sindaco. Finché dura.

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