LO STRAPPO CHE L’ITALIA NON RICUCE
Un altro 25 Aprile è passato, ma alla luce di quanto è successo giovedì qualche riflessione va fatta. Dovrebbe essere la festa nazionale più importante, perché è la data della Liberazione dell’Italia . Tutta l’Italia. Dalla dittatura, dalla guerra, dall’incubo nel quale il Paese era finito. Dal 25 Aprile arrivano la Repubblica, la Costituzione, i diritti, le libertà, i doveri. E dovrebbe essere il nostro 4 luglio, il giorno dell’indipendenza degli Stati Uniti. Il nostro 14 luglio, la nostra Bastiglia. Ma non è mai stato così. Per Matteo Salvini, ministro dell’Interno, il 25 Aprile è solo un derby fra comunisti e fascisti, e se ne è andato a inaugurare un commissariato a Corleone. Il sottosegretario Lucia Borgonzoni, sua fedelissima, ha festeggiato Guglielmo Marconi e la ricorrenza della sua nascita, il capogruppo leghista Alan Fabbri, invece, era in piazza a Ferrara. A Marzabotto non c’era nessuno del governo. Alla Bolognina per la sesta volta è stata distrutta la lapide che ricorda gli 11 partigiani uccisi e la svolta di Occhetto. A Modena il corteo degli anarchici ha lasciato danni e aspre polemiche. A Finale Emilia il sindaco di centrodestra ha ricordato la morte del segretario fascista Gino Falzoni. Dovremmo domandarci perché una data che dovrebbe vederci sorridere insieme ci divide, e nella sua incompiutezza di essere festa nazionale, cioè di tutti, trovano spazio provocazioni e distinguo, negli ultimi anni sempre più fragorosi.
Ha ragione Carla Nespolo, la prima donna presidente dell’Anpi, quando ci ricorda che «il 25 Aprile dovrebbe essere la festa di tutti gli italiani». E ne ha ancor di più quando dice che «furono i partigiani e le partigiane in armi e quanti li avevano sostenuti che salvarono l’onore dell’Italia». A dir la verità lei aggiunge che i partigiani salvarono anche «l’onore della patria». Ed è qui che iniziano i problemi che ci trasciniamo fino a oggi. Perché di Resistenza in realtà non ce ne fu una sola. Ci fu quella comunista, dove c’era (ed erano molti) chi perseguiva la rivoluzione e la creazione di uno Stato comunista. E Togliatti, che quella rivoluzione sognata bloccò, ma che al tempo stesso fu capace di tutta la Resistenza. C’era quella dei cattolici, i «ribelli per amore» come saranno poi definiti che,
però, stretti nella morsa degli schieramenti del dopoguerra scelsero di non rivendicare il loro ruolo, di ricordare soltanto gli eroismi individuali. C’era la Brigata ebraica, erano trentamila i volontari, ebrei da tutto il mondo ferito e umiliato dalla guerra. Combatterono anche in Italia, anche sull’Appennino insanguinato dalle stragi. Poi quella dei laici, i liberali per esempio che parteciparono a molte azioni militari ma che poi faticosamente si ritrovarono nella Repubblica stretta nel morso di cattolici e comunisti. C’era anche Edgardo Sogno, fra le Medaglie d’oro della Resistenza. Nel 1938 ebbe il coraggio di girare per Torino con una stella di David appuntata sulla giacca. Negli anni Settanta, inquieto che l’ombra cecoslovacca si allungasse sull’Italia, si trovò a studiare con altri una specie di Golpe bianco che prevedeva una repubblica presidenziale e la messa fuorilegge di Movimento sociale e Partito comunista. Furono poi davvero militarmente decisivi i partigiani italiani nella Liberazione? La risposta è no, erano troppo pochi. Ma certo furono importanti, e non solo perché aiutarono militarmente gli alleati nell’anno più cruento, dopo lo sbarco in Sicilia. Ma anche perché quella straordinaria esperienza forgiò una classe dirigente alla quale gli Alleati potevano affidare il governo provvisorio delle città liberate. Ma l’intestazione della Resistenza al Pci non fece bene al 25 aprile. Non gli fa bene ancora oggi. E non soltanto perché fu un falso storico. Ma perché impedì allora (e impedisce ancora) che quel giorno fosse la festa di tutti. E rese impervia la rinascita della Patria, che si era dissolta l’8 settembre. Patria è una parola che in Italia non a caso è stata impronunciabile per decenni. E anche Italia e italiani erano diventate parole che trovavano un significato soltanto durante i campionati del mondo di calcio. Per il resto, eravamo tutti più bolognesi che Italiani, più milanesi che italiani, più napoletani che italiani. In questa babele di identità non poteva che farne le spese la festa che avrebbe dovuto unirci di nuovo. Il fascismo, come il nazismo, come qualunque dittatura, aveva sporcato anche le parole, le aveva violate, rese impronunciabili. Le profonde divisioni durante la guerra civile, non solo fra fascisti e antifascisti, ma ancor di più fra antifascisti, non avevano consentito di restituire alle parole un significato condiviso. Patria e Italia, per troppo tempo, erano rimaste di «proprietà» dei nostalgici del regime. E la Repubblica appena nata non aveva la forza per riprendersele, di gridarle con onore. Fu il livornese Carlo Azeglio Ciampi, durante la sua presidenza, ha provare con forza a recuperare l’idea di Patria. A esaltare il Tricolore. A recuperare la festa delle Forze armate. A riconoscere onore ai soldati caduti sotto il governo fascista e ai ragazzi che andarono a Salò pensando di servire la Patria. Lo fece con ostinazione, e fu sommerso dalle critiche. Qualcuno scrisse che Ciampi era un sarto che cercava di ricucire irrimediabili strappi. Purtroppo non ci riuscì. E noi siamo ancora lì, al 25 aprile del 1945 .