Verso la sentenza sul cold case del buttafuori ucciso in via della Foscherara. Il legale dell’imputato ha provato a smontare la ricostruzione del pm che ha chiesto l’ergastolo. La Corte decide il 26
IN BREVE
È stata un’indagine forzata, pilotata», per l’avvocato Roberto D’Errico quella che, a distanza di vent’anni, ha portato all’imputazione di Stefano Monti per l’omicidio del buttafuori Valeriano Poli. Ieri mattina davanti alla Corte d’Assise che sta processando il 60enne per omicidio premeditato, è stato il turno della difesa che ha provato a smontare le tesi dell’accusa. I
n una lunga e appassionata arringa di cinque ore, a cui hanno assistito il fratello e l’ex fidanzata della vittima che la sera dell’omicidio lo aspettava in auto, oltre ai figli e molti amici dell’imputato, D’Errico ha puntato a confutare quella che per il pm Roberto Ceroni è la prova regina: la macchia di sangue sullo scarponcino di Poli che appartiene a Monti. Sangue che per l’accusa Monti avrebbe perso proprio la sera dell’omicidio, in una colluttazione che precedette gli spari. Ma, ha sostenuto l’avvocato D’Errico in aula, «per poter condannare una persona non basta la consapevolezza che sia colpevole, bisogna provarlo. Non prendiamoci in giro, siamo in Assise e servono prove certe. La dinamica dei fatti non è certa». Perché per il legale il fatto che i testimoni oculari videro un uomo scappare su un ciclomotore e con un braccio sparare, non è compatibile con l’ipotesi di una colluttazione. «È improbabile che Poli si sia difeso e poi gli abbia lasciato il tempo di sparare». «Senza contare che l’imputato avrebbe avuto non poche difficoltà a sparare dopo averle prese di santa ragione».
L’accusa, basandosi sul sistema «Analysis of vritual evidence», applicato dalla Polizia Scientifica che ha sfruttato una ricostruzione in 3D estrapolata da un video amatoriale girato qualche giorno prima dell’omicidio, ha concluso che prima del delitto il sangue di Monti sulla scarpa non c’era. Invece per la difesa «è impossibile dire quando sia finito su quella scarpa». Perché il movente che sostiene l’accusa è la vendetta per una colluttazione che ci fu tra i due mesi prima fuori dalla discoteca Tnt, in cui
Per l’accusa Monti lasciò il suo sangue sulle scarpe nella lite prima dell’omicidio
Monti ebbe la peggio. Per la difesa il sangue dell’imputato sulla scarpa va ricondotto a quella sera. «Le vostre coscienze — ha concluso D’Errico rivolgendosi alla giuria popolare — devono sciogliere il tema finale, terribile del ragionevole dubbio. Ma in questo processo la prova scientifica non resiste al vaglio critico. C’è un uomo detenuto da mesi che aspetta in silenzio, non si è sottratto al processo. Dovete assolverlo».
Il cold case dell’uccisione del 34enne, freddato con a colpi di pistola la sera del 5 dicembre 99, è stato riaperto nel 2014, quando è stato prelevato il dna di Monti simulando un controllo stradale. Monti, all’epoca dei fatti piccolo boss del Pilastro, avrebbe covato la vendetta per mesi, preceduta da lettere intimidatorie. Ma per il suo legale «non ci sono due mondi separati, non ci sono buoni e cattivi. Poli e Monti frequentavano lo stesso mondo, di quartieri di periferia, di disagio, ma sulle frequentazioni di Poli non si è indagato abbastanza». La decisione della Corte è attesa per il 26 giugno.