Faranda e Moro, il dolore del perdono
L’incontro al Festival francescano alla presenza del vescovo Matteo Zuppi
Sono sedute una accanto all’altra. Parlano piano, scandendo le parole, con la forza dirompente dei concetti che esprimono: assenza, dolore, rabbia, rancore, giustizia, condivisione, comprensione. E perdono. Che non è un sentimento ma una libera scelta. Quella, difficilissima, che hanno maturato Agnese Moro, figlia dello statista giustiziato dalle Br nel 1978, e Adriana Faranda, componente del commando.
Sono sedute una accanto all’altra. Parlano piano, scandendo le parole, senza mai salire di tono ma con la forza dirompente dei concetti che esprimono: assenza, dolore, rabbia, rancore, vuoto, giustizia, condivisione, comprensione. E perdono, certo. Che non è un sentimento ma una libera scelta. Quella, difficilissima, che hanno maturato ormai dieci anni fa Agnese Moro, figlia dello statista rapito e giustiziato dalle Brigate Rosse nel 1978, e Adriana Faranda, componente della colonna romana che ebbe un ruolo importante durante il sequestro ma si oppose all’uccisione di Moro, per poi dissociarsi.
Non è la prima volta che vittima e carnefice si ritrovano insieme a parlare del lungo percorso che le ha portate a «comprendere l’altro da sé», a spiegare come si possa guardare negli occhi chi ti ha portato via per sempre un padre, il faro della tua famiglia, fino a costringerti a «vivere prigioniera del passato», a perdere perfino «i ricordi, quelli più dolci», e arrivare infine a quella giustizia riparativa fatta prima di sguardi, occhi negli occhi, poi di parole, di settimane passate insieme e dunque di empatia per chi «non è era più la persona di allora». Ma lo fanno nella città dove molti anni dopo gli epigoni di quella folia sconfitta dalla storia hanno giustiziato Marco Biagi, un altro servitore dello Stato, un altro padre.
Dalle loro parole si percepisce una serenità interiore raggiunta con fatica e in fondo a un cammino complicato, un’esperienza totalizzante che condividono con la platea attenta del Festival francescano. Prima di salire sul palco l’arcivescovo e prossimo cardinale Matteo Zuppi stringe loro le mani, le abbraccia. Interviene solo per sottolineare quei concetti così forti e declinarli nella vita di tutti i giorni. Perdono, comprensione, dialogo: «C’è molto odio in giro, molto da riparare. Se la giustizia non ripara rischia d’essere solo punitiva».
Agnese Moro parla di quei giorni del Natale 2009 che la spinsero ad accettare la proposta di padre Guido Bertagna, il gesuita che rese possibile quel primo incontro «dopo anni di
” Agnese Moro Per anni solo sentimenti feroci: il dolore non si può togliere agli altri ma portarlo insieme
sentimenti feroci che hanno mutilato la mia vita, una esistenza attaccata a un elastico, potevo andare avanti ma una parte di me era ferma al 78. Vivevo come un insetto in una goccia di ambra. Dissi di no, temevo di offendere la mia famiglia, poi capì che non potevo cedere alla dittatura del passato. Come vittima ho avuto giustizia, ma non credo alla pena fine a se stessa, non sto meglio se qualcun altro soffre». Gli applausi la interrompono, la Faranda ascolta mentre lei ricorda i nomi degli agenti di scorta trucidati in via Fani. «L’altro da me si è presentato con i loro visi, avevo in mente dei mostri giovani invece su quei visi c’era una vita che è passata, complessa e difficile. Li ho potuti rimproverare, chiedere loro come hanno potuto farlo. Mi ha colpito la loro umanità, la differenza tra quello che sono stati e quello che erano». E poi il dolore, «sì anche quello di chi ha ucciso e non può tornare indietro: è un dolore che non si può togliere agli altri, ma portare insieme. E finalmente ho potuto avere indietro i miei ricordi, trovare la serenità».
Appena finito di parlare poggia una mano sulla spalla della Faranda, come a farle coraggio. «Sentivo che dovevo chiudere il mio percorso di vita, ero partita dalla giustizia per raggiungere la quale ho fatto scelte imperdonabili e alla giustizia dovevo tornare. Dovevo guardare il volto di chi avevo privato del bene più grande, darle la possibilità di urlarmi contro tutte le sue sofferenze, anche l’odio. Ne aveva il diritto». La chiave di volta per Faranda è stata la necessità di passare dalla colpa alla responsabilità. E la responsabilità «nei confronti di Agnese significa averne cura, come lei di me». Non una memoria condivisa, ma comune.