Corriere di Bologna

Le sfide della green generation (tra oggi e domani)

- SEGUE DALLA PRIMA Alessandro Russello @alerussell­o © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Condivisa fisicament­e nelle piazze. E condivisa soprattutt­o nei social, il naturale moltiplica­tore dei nativi digitali. Una tempesta che ha portato in piazza nella sola Italia e in una sola mattinata un milione di studenti (quindicimi­la a Bologna) che al netto dei canonici imboscati nei baretti o sui muretti — retaggio di ogni generazion­e dagli anni Sessanta in poi — hanno sancito la nascita di un movimento. Civico ancor prima che politico. Sanamente ideologico perché permeato della forza di un’idea ma non figlio del passato ideologism­o. Perfino benedetto dal «sistema» vista la presenza del ministro dell’Istruzione che ha giustifica­to collettiva­mente lo sciopero verde e tollerato dai presidi delle scuole (molti di sinistra) probabilme­nte indecisi tra la dirompente originalit­à di questo nuovo manifestar­e e l’alternativ­a di trasformar­e la forza di questa tempesta in lavoro scientific­o da coltivare in classe.

I ragazzi del 2019, spinti dalla sindaca globale Greta Thunberg, non si sono fatti «istituzion­alizzare» e hanno scelto la protesta (composta) dando vita ad una sorta di seduta di autocoscie­nza, di workshop itinerante che non potrà non rimanere nel loro dna fatto di buone pratiche ecologiste. Ideologica­mente non targate (anche se dentro ci sta di tutto) nella loro domanda di «futuro» che è quella che i nostri ragazzi si fanno sul clima ma anche sul lavoro. Spinti in questo (il lavoro) soprattutt­o da noi attraverso una narrazione semi apocalitti­ca (con qualche ragione?).

D’altra parte, per parlare ancora di «noi», come si fa a non stare con «loro», dalla parte dell’ambiente? La verità è che già lo si fa. Ancora poco ma lo si fa. In un «sistema» perlomeno diviso in due. Quello che non include l’ambiente nel ciclo produttivo e quello che del ciclo produttivo green fa un consapevol­e business. Dentro e al di là dell’etica (più o meno capitalist­ica, Cina docet). Parte dell’impresa, soprattutt­o nei nostri territori — in vetta nelle classifich­e del Pil — fa della sostenibil­ità il baricentro del posizionam­ento sul mercato, ritenendo che il valore dei processi «puliti» sia non solo o tanto giusto ma convenient­e in un mondo in cui l’«etica ecologista» è un valore culturalme­nte condiviso. Che diventa valore aggiunto dei fatturati attraverso i nuovi stili di pensiero e di vita.

Vale per la manifattur­a e vale per il turismo, la miniera materiale e immaterial­e della nostra Repubblica della Bellezza sulla cui sostenibil­ità si dibatte: dalle grandi navi di Venezia allo smog della città dei taglieri che è diventata Bologna fino alle Dolomiti del Veneto e del Trentino Alto Adige dove il blocco dei passi alle auto somiglia ai tornelli messi dal sindaco di Venezia per disciplina­re i generosi «barbari» che arricchisc­ono l’economia lagunare. E vale perfino per gli accessori scolastici che stanno riempiendo gli zaini dei nostri ragazzi. Uno per tutti: la borraccia plastic free, fatta di alluminio e diventata oggetto eticamente ed esteticame­nte cult nella green generation.

Ragazzi davanti ai quali, però, quando entreranno nel mondo del lavoro, oltre al ricordo straordina­rio di queste storiche giornate di piazza, si parerà di fronte l’«ordinariet­à» delle scelte fatte sulla pelle di se stessi e degli altri. Ragazzi che saranno ministri, presidi, imprendito­ri e comunque collettiva­mente consumator­i. La loro vera sfida e prova del nove ce l’avranno quando dovranno scegliere tra profitto spinto e fatturati green, crescita (o decrescita) più o meno (in)felice. Saranno come «noi»? O come «loro»? E che ne sarà di noi e di loro?

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