Le sfide della green generation (tra oggi e domani)
Condivisa fisicamente nelle piazze. E condivisa soprattutto nei social, il naturale moltiplicatore dei nativi digitali. Una tempesta che ha portato in piazza nella sola Italia e in una sola mattinata un milione di studenti (quindicimila a Bologna) che al netto dei canonici imboscati nei baretti o sui muretti — retaggio di ogni generazione dagli anni Sessanta in poi — hanno sancito la nascita di un movimento. Civico ancor prima che politico. Sanamente ideologico perché permeato della forza di un’idea ma non figlio del passato ideologismo. Perfino benedetto dal «sistema» vista la presenza del ministro dell’Istruzione che ha giustificato collettivamente lo sciopero verde e tollerato dai presidi delle scuole (molti di sinistra) probabilmente indecisi tra la dirompente originalità di questo nuovo manifestare e l’alternativa di trasformare la forza di questa tempesta in lavoro scientifico da coltivare in classe.
I ragazzi del 2019, spinti dalla sindaca globale Greta Thunberg, non si sono fatti «istituzionalizzare» e hanno scelto la protesta (composta) dando vita ad una sorta di seduta di autocoscienza, di workshop itinerante che non potrà non rimanere nel loro dna fatto di buone pratiche ecologiste. Ideologicamente non targate (anche se dentro ci sta di tutto) nella loro domanda di «futuro» che è quella che i nostri ragazzi si fanno sul clima ma anche sul lavoro. Spinti in questo (il lavoro) soprattutto da noi attraverso una narrazione semi apocalittica (con qualche ragione?).
D’altra parte, per parlare ancora di «noi», come si fa a non stare con «loro», dalla parte dell’ambiente? La verità è che già lo si fa. Ancora poco ma lo si fa. In un «sistema» perlomeno diviso in due. Quello che non include l’ambiente nel ciclo produttivo e quello che del ciclo produttivo green fa un consapevole business. Dentro e al di là dell’etica (più o meno capitalistica, Cina docet). Parte dell’impresa, soprattutto nei nostri territori — in vetta nelle classifiche del Pil — fa della sostenibilità il baricentro del posizionamento sul mercato, ritenendo che il valore dei processi «puliti» sia non solo o tanto giusto ma conveniente in un mondo in cui l’«etica ecologista» è un valore culturalmente condiviso. Che diventa valore aggiunto dei fatturati attraverso i nuovi stili di pensiero e di vita.
Vale per la manifattura e vale per il turismo, la miniera materiale e immateriale della nostra Repubblica della Bellezza sulla cui sostenibilità si dibatte: dalle grandi navi di Venezia allo smog della città dei taglieri che è diventata Bologna fino alle Dolomiti del Veneto e del Trentino Alto Adige dove il blocco dei passi alle auto somiglia ai tornelli messi dal sindaco di Venezia per disciplinare i generosi «barbari» che arricchiscono l’economia lagunare. E vale perfino per gli accessori scolastici che stanno riempiendo gli zaini dei nostri ragazzi. Uno per tutti: la borraccia plastic free, fatta di alluminio e diventata oggetto eticamente ed esteticamente cult nella green generation.
Ragazzi davanti ai quali, però, quando entreranno nel mondo del lavoro, oltre al ricordo straordinario di queste storiche giornate di piazza, si parerà di fronte l’«ordinarietà» delle scelte fatte sulla pelle di se stessi e degli altri. Ragazzi che saranno ministri, presidi, imprenditori e comunque collettivamente consumatori. La loro vera sfida e prova del nove ce l’avranno quando dovranno scegliere tra profitto spinto e fatturati green, crescita (o decrescita) più o meno (in)felice. Saranno come «noi»? O come «loro»? E che ne sarà di noi e di loro?