Corriere di Bologna

Don Matteo, dal Vangelo a Springstee­n

- Di Marco Imarisio

«Perché non canti un verso di The Promised Land?». L’uomo che mentre saliva sull’altare sussurrò sorridendo questa frase a un futuro sposo molto agitato, si era svegliato alle cinque a Roma, aveva preso un aereo per Parigi e poi aveva fatto tre ore e mezza di auto per arrivare in uno sperduto paesino della Francia, dove avrebbe celebrato il matrimonio tra due suoi ex parrocchia­ni. Le amicizie si vivono, non si raccontano. Ma don Matteo Zuppi è un uomo al quale viene facile augurare un mondo di bene, perché sai che non lo terrà per sé. La prima volta fu quindici anni fa. I senzatetto che affollano piazza di Santa Maria in Trastevere lo chiamavano per nome, e lui conosceva il nome di tutti.

Si informava, chiedeva. Accarezzav­a chi stava male. Serviva, nel senso evangelico del termine. Anche se con le persone che ogni tanto cercavano di dargli una mano mostrava una umanità scanzonata, tipica di un figlio di Roma, che dall’indole capitale ha assorbito la bontà e la profondità dello sguardo, lasciando a terra il cinismo. Proprio nel 2004 battezzò il primogenit­o della coppia che poi nell’agosto del 2013 avrebbe sposato in quella località così inconsueta, mentre altri due figli avrebbero poi ricevuto da lui il loro primo sacramento. La richiesta di citare Springstee­n non era solo una battuta per attenuare il nervosismo del futuro sposo. Dietro quelle parole c’erano molte conversazi­oni trascorse ad analizzare i passi più religiosi delle canzoni del Boss. Ormai la sua passione è nota, ma pochi ne conoscono l’intensità. Don Matteo ascolta spesso il grande rocker americano, ne apprezza più le ballate dolenti, quelle di The River e Nebraska per capirci, che gli inni da stadio, legge, si documenta. Ha una sua tesi. Lo ritiene il più evangelico dei grandi musicisti contempora­nei. Dovrebbe scriverci sopra un libro, ma non lo farà mai. Lo sfoggio della propria cultura non rientra nei suoi precetti. In questi giorni è toccato leggere di un Matteo a noi sconosciut­o. L’ignobile polemica sui tortellini di pollo gli ha attirato addosso accuse consuete. Prete di sinistra, dei vip, sodale di quell’altro comunista di Papa Bergoglio. Niente di più falso, a meno di voler inserire Marx ed Engels tra gli evangelist­i, e di considerar­e Torre Spaccata, una delle periferie più estreme di Roma, un ritrovo di ricchi e famosi. Fu Matteo a chiedere di lasciare la sua Santa Maria in Trastevere per essere applicato in quell’ostica zona della Capitale. A chi lo andò a trovare nella nuova sede chiedendog­li il perché della scelta, spiegò che aveva sentito ancora più forte il bisogno di essere utile, aiutando i volontari cattolici che cercavano di rendere vivibile quel luogo desolato. E fu proprio in una di quelle occasioni che Matteo fece una lectio magistrali­s a uso e consumo dell’ascoltator­e sulla dottrina di Joseph Ratzinger, della cui figura è sempre stato un ammiratore. Per altro fu proprio Benedetto XVI a nominarlo vescovo ausiliare di Roma nel 2012. La teologia del neo cardinale Zuppi è molto più complessa di quanto si voglia far

” In questi giorni è toccato leggere di un Matteo a noi sconosciut­o L’ignobile polemica sui tortellini di pollo gli ha attirato addosso accuse consuete

credere nel tentativo di denigrare. Quante vane parole, su Matteo. Sia chiaro, anche quelle di chi ben presto riceverà un sms di rimprovero per questo articolo. Quel giorno di sei anni fa, 24 agosto 2013, era stanco dopo un viaggio lunghissim­o. Era stata preparata una stanza dove avrebbe dormito per ripartire l’indomani. Invece, chiese di essere riaccompag­nato subito all’aeroporto. All’alba del mattino seguente, spiegò agli sposi, aveva un impegno. Doveva portare un tozzo di pane e del latte caldo ai diseredati che dormono all’addiaccio nella sua Trastevere. Era il suo turno. Ed era già vescovo. A quel che sappiamo lo fa, senza dirlo, anche nella Bologna di cui si è subito innamorato. Amare e servire, con tutto se stesso, con quel buon umore che non deve mai mancare. Oggi è un giorno bellissimo, per Bologna e per chi continua a volergli bene da lontano. E comunque, lo sposo ci aveva pensato davvero, a esibirsi in una cover del Boss. Proprio quella. Nella tasca della giacca teneva un foglietto. «The dogs on main street howl cause they understand/If I could take one moment into my hands/Mister I ain’t a boy no I’m a man/And I believe in a promised land». Ma era molto emozionato, oltre a essere stonato come una campana. Quindi non se ne fece nulla. Fidati, don Matteo, è stato meglio così. Per le orecchie di chi c’era, per te, e anche per Springstee­n.

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