Diritti, Ligabue e il premio a Germano
In sala (dove possibile) da domani Giorgio Diritti: «In questi giorni difficili, è un segnale di fiducia» L’Orso d’Argento a Elio Germano
Nello scorso weekend Giorgio Diritti è tornato volentieri a Berlino. Per condividere, seduto in platea, il riconoscimento che la «Berlinale» ha assegnato a Elio Germano, interprete del pittore Toni Ligabue nel suo film
Volevo nascondermi. Un premio che il trentanovenne attore romano ha dedicato alle persone più fragili ed esposte, perché «Ligabue era deriso da tutti e siamo qui a parlare di lui, non delle persone ricche e famose». Il film avrebbe dovuto essere presentato la scorsa settimana, a Reggio Emilia e a Bologna, proiezioni saltate per l’emergenza coronavirus. In ogni caso, sull’onda del riconoscimento a Germano, il film di Diritti uscirà domani nelle sale aperte nel resto d’Italia, in attesa di poter guadagnare anche gli schermi delle regioni dove i cinema sono ancora chiusi, Emilia-Romagna compresa.
Per il sessantenne regista bolognese, al suo ritorno al lungometraggio a otto anni dal precedente Un giorno devi andare, «l’uscita del film in questi giorni così difficili vuol dare un segno di fiducia, di positività, per cercare di far sì che pure in questo momento ci sia una sensazione di possibilità di vita. Anche su impulso di quello che ha detto il Presidente della Repubblica: avere grande rispetto per la scienza, ma contemporaneamente anche cercare di riacquistare un senso di vita».
Diritti, il suo film è finito nel frullatore del coronavirus.
«A me pare che l’unico anticorpo sia quello di usare la testa, contemperando le attenzioni e la cura verso se stessi con il rispetto dell’altro. Il panico non è mai d’aiuto».
A Berlino invece com’è stata l’accoglienza?
«Molto positiva, con una bella cornice e un’attenzione accentuata per il valore artistico del cinema. La proiezione in Sala Grande poi, con più di 1.700 persone, è stata davvero emozionante».
Venendo al film, la sua non è propriamente una biografia di Ligabue.
«È vero, non è un film biografico in senso tradizionale. Ligabue ha avuto una vita densa anche aldilà della dimensione artistica, come mi hanno raccontato le persone ancora in vita che lo hanno conosciuto. Tra l’uscita dal manicomio, una sorta di rappacificazione con la società che lo aveva sempre rifiutato e la sicurezza economica raggiunta». È vero che Ligabue non aveva mai smesso di sentirsi un forestiero?
«Il mio Ligabue è un diverso, un uomo brutto ed emarginato, un clochard. In questo senso è un personaggio vivo ancora oggi. In un mondo dove malattie e morte sembrano sorprenderci sempre di più, mentre erano abituali nella civiltà contadina».
Il suo era un mondo rurale.
«Il benessere ha trasformato completamente la società, anche in positivo, con strutture più adeguate per i problemi sociali. Però è un po’ come se avessimo demandato la possibilità di lasciare la porta aperta e un piatto sulla tavola per un viandante, come accadeva nella pianura emiliana».
La diversità di Ligabue cosa può suggerirci ancora oggi?
«Che in ogni uomo ci sia una potenzialità che, se aiutata, può arrivare a esprimersi».
Nel film lei cerca di evitare gli stereotipi sul legame tra arte e follia.
«Il rischio era di trasformarlo in una macchietta: ho cercato di ricordare che era un uomo, raccontandolo per quello che era e faceva. Non volevo dare giudizi su Ligabue, il film è un viaggio per conoscerlo, per avvicinarmi il più possibile a lui».
Nei titoli di coda scorrono le opere di Ligabue. Quali l’hanno colpita di più?
«Trovo particolarmente interessante la sua dimensione di scultore, meno nota. Quel mondo esotico che rappresentava sulle rive del Po c’era anche in quelle opere di argilla impastata a mano, facendo asciugare quelle belve con il calore del sole».
Il lavoro con Elio Germano è stato anche sulla lingua.
«Ligabue parlava tedesco e si ritrovò in un mondo che lui non capiva e non lo comprendeva. Per questo il lavoro di Elio sul linguaggio, fondendo parole in tedesco e in dialetto emiliano, per il film è stato fondamentale».