Il mondo sbirciato attraverso la Rete
Boccia Artieri: «Bisognerà inventare qualcosa di nuovo per il nostro festival»
Giovanni Boccia Artieri lo conoscono bene gli spettatori che nel teatro amano l’avventura. È facile incontrarlo ad assistere alle sperimentazioni più spericolate; è presidente di Santarcangelo dei Teatri, l’associazione che organizza il festival. Ma il teatro non è la sua occupazione principale. Nato a Bologna nel 1967, vive a Rimini ed è un sociologo esperto nelle nuove frontiere dei mass media. Insegna Sociologia della comunicazione dei media digitali all’Università di Urbino, dove dirige il dipartimento di Scienze della comunicazione.
Professore, ci aiuta a capire come i media stanno informando sull’emergenza sanitaria in corso?
«C’è stata una trasformazione degli atteggiamenti durante le settimane. All’inizio era predominate l’allarme, la preoccupazione; adesso è subentrata una gestione più informativa, più attenta ai dati, sempre con le prevedibili interferenze della politica. È un atteggiamento tipico dei media di fronte a catastrofi lunghe nel tempo. In questa fase è alta l’attenzione a dar conto delle norme, l’appello a rispettare le regole. E collaborano a stigmatizzare le trasgressioni. Sui social media, in questo senso, vediamo proliferare foto di gente che gira per strada scattate dai terrazzi, immagini di coppie per strada…».
In Lombardia le autorità controllano gli spostamenti attraverso le celle telefoniche.
«Qui si innesca una questione: quali quote di libertà siamo disposti a cedere di fronte a un’emergenza come quella che viviamo? Solo un mese fa tutti avremmo avuto una reazione scandalizzata. Certo che un pericolo c’è: quando entri in una fase di controllo tecnologico invasivo, non sai fino a dove si può arrivare, qual è il punto di non ritorno. Prima dell’approvazione degli ultimi decreti ci sono state anticipazioni sui media. Sono entrati in conflitto il diritto all’informazione e il rischio di dare un allarme prima del tempo. Oggi i media si trovano di fronte a forti questioni di responsabilità sociale».
Come valuta la corsa all’uso dei supporti tecnologici?
«A differenza di solo qualche mese fa, strati diversi di popolazione si stanno confrontando con la Rete, con lo “smart working”, con la didattica a distanza. Nel momento in cui sono eliminate le interazioni sociali, si scopre che la rete non serve solo per l’intrattenimento, per il “cazzeggio”, ma a mantenere rapporti. C’è stato un innalzamento delle competenze culturali delle persone, che hanno dovuto installarsi programmi, iscriversi a piattaforme, usare gli smartphone per coltivare i contatti. Mi sembra un punto di non ritorno culturale: ti accorgi che il mondo digitale è più semplice e utile di quello che pensavi».
I social media?
«Credo si sia abbassata la soglia del rumore di fondo prodotto dalla controversia politica, dalla chiacchiera o anche dallo sport. Emerge il bisogno di informarsi, anche se continuano a girare fake news, teorie del complotto, ricette di rimedi immaginari al contagio... Molto su whatsapp, dove ognuno cerca risposte di tipo materiale o simbolico, creando occasioni sociali o postando immagini, video, battute che alleggeriscano la tensione».
Cosa pensa delle nuove occasioni culturali che offre la Rete?
«È un atteggiamento “ideologico”, ossia che cerca di dare una risposta immediata a una crisi, per esempio la chiusura di teatri e librerie. Non può essere la soluzione definitiva. Queste varie iniziative, distribuite per gruppi d’interesse, sono partite da una decina di giorni e hanno creato una nuova ritualità, come le canzoni sui balconi. Funzionano se le usi qualche volta. Non si possono ripetere per troppo tempo, ci vogliono cose più consistenti, non si può andare avanti solo di simbolico».
E degli spettacoli dal vivo proposti in streaming?
«Il senso dell’espressione “dal vivo” oggi deve tenere conto di una diversa condizione corporea, di corpi separati e costretti in spazi ristretti, con una dilatazione del tempo a disposizione. Differente è la condivisione di contributi prodotti prima. Lo streaming ha a che fare con il bisogno di essere dal vivo, ma rimanere di fatto distanti con i corpi. Una recente ricerca biocognitiva ha notato come gli spettatori in una sala teatrale abbiano variazioni cardiache e neuronali particolari, determinate dallo stare insieme in un luogo e in presenza. Lo streaming è un’esperienza differente dall’esperienza dal vivo, sulla quale riflettere».
Lei è presidente di Santarcangelo dei Teatri. Cosa accadrà al festival?
«Insieme con la direzione artistica dei Motus e con il direttore organizzativo Roberto Naccari stiamo riflettendo. Dopo quello che sta succedendo, il festival che avevamo immaginato avrà ancora senso? Gli spettatori vorranno ritrovarsi a stretto contatto? Forse dovremo ancora di più riscoprire la vocazione di Santarcangelo agli spazi aperti pubblici, la strada, la piazza, le vetrine... Un altro problema è che avevamo già preso a livello internazionale appuntamenti con artisti che non stanno producendo. Cosa faremo quando si potrà ricominciare? Non possiamo saltare l’anno del cinquantenario. Dovremo riflettere se il festival come concentrazione di eventi in uno spazio-tempo ha ancora senso o se bisogna inventare qualcosa di nuovo».
Lo streaming
Il senso dell’espressione «dal vivo» oggi deve tenere conto di una diversa condizione corporea e temporale, di corpi separati e in spazi ristretti