Il sommerso del coronavirus «In Emilia 20mila contagi reali»
Cartebellotta guida la Fondazione Gimbe: «Letalità del virus sovrastimata. La strategia tamponi a tappeto ormai è inutile, ma vanno fatti ai sanitari»
Nino Cartabellotta è presidente della Fondazione Gimbe, istituzione di formazione e ricerca medico-scientifica con sede in via Amendola, indirizzata alla sostenibilità del servizio sanitario pubblico.
Anche voi state mappando il coronavirus sul vostro sito. Nei giorni scorsi avete parlato di una sovrastima della letalità del virus in Italia. Perché?
«Considerato che in Italia i tamponi vengono fatti prevalentemente sui soggetti sintomatici, la gravità e la letalità di Covid-19 sono ampiamente sovrastimate perché vediamo solo la punta dell’iceberg. In particolare, il tasso grezzo di letalità ieri in Italia ha raggiunto il 9,9%, con ampie variabilità regionali: il 13,6% in Lombardia, una spia rossa che conferma il sovraccarico degli ospedali, in particolare delle terapie intensive, allineando i numeri alla narrativa di chi lavora in prima linea. Escludendo la Lombardia il tasso di letalità in Italia è del 7,1% e del 10,6% in Emilia-Romagna, di poco superiore al dato nazionale, senza alcun segno di evidente sovraccarico».
A quanto ammonta secondo voi la stima dei contagiati potenziali qui in regione?
«Le nostre stime si allineano a quelle della coorte cinese dello studio pubblicato su Jama: 81% con sintomi lievi, 15% ospedalizzati e 5% in terapia intensiva. Sui dati di ieri la stima è di oltre 181.000 casi in Italia, rispetto ai 69.176 confermati, e di 20.569 in EmiliaRomagna rispetto ai 9.254 diagnosticati finora. Nella parte sommersa dell’iceberg ci sono oltre 118.000 casi lievi/ asintomatici non identificati in Italia di cui oltre 12.000 nella nostra regione».
Qual è la sua posizione in merito al «modello coreano»: più tamponi e monitoraggio dei contagiati anche usando la tecnologia?
«La strategia “tamponi a tappeto”, inteso come screening di popolazione, non ha alcun senso per tre ragioni: non è tecnicamente fattibile in quanto andrebbe a “ingolfare” i laboratori; non è costoefficace; infine, siamo in una fase della diffusione dell’epidemia talmente avanzata che non avrebbe alcun impatto nel prevenire l’ulteriore diffusione del contagio. I test vanno fatti, oltre che ai soggetti sintomatici e ai contatti di casi positivi, agli operatori sanitari: grandi e inconsapevoli protagonisti della diffusione del contagio in ospedali e residenze per anziani. Una policy già avviata in regione con la direttiva del 20 marzo».
Come giudica le misure prese dalla Regione?
«Si è mossa sempre in linea con le misure nazionali, introducendo tempestivamente vincoli ancora più restrittivi quando necessario. Come è accaduto per il territorio di Piacenza, per il Riminese, oltre che per “sigillare” Medicina».
Quanto può aver influito un ritardo delle misure iniziali?
«Abbiamo pagato molto caro il prezzo dell’impreparazione organizzativa e gestionale all’emergenza: dall’assenza di raccomandazioni nazionali a protocolli locali improvvisati; dalle difficoltà di approvvigionamento dei dispositivi di protezione individuale alla mancata esecuzione sistematica dei tamponi agli operatori sanitari; dalla mancata formazione dei professionisti sanitari all’informazione alla popolazione. Tutte attività previste dal Piano nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale del 2003 e aggiornato nel 2006. Rimane inspiegabile perché il piano non sia stato ripreso dopo la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale, lo scorso 31 gennaio. Le decisioni nazionali sono state guidate da politiche troppo attendiste che hanno “inseguito” i numeri del giorno».