PENSARE LA CRISI
Ancora oggi lungo la via Emilia sono evidenti, se non altro nella toponomastica, le tracce lasciate nel Medioevo dalla risposta delle città alla diffusione della lebbra. Una risposta che obbediva ad un’unico criterio, ad un sistema, ad un piano comune, e che riguardava il rapporto instaurato da ognuna di esse, per mezzo dell’asse viario, con il campo spaziale costituito dalla rete dei flussi materiali e immateriali che allora l’attraversavano.
Apartire dal Mille ed entro il Duecento tutti i centri del corridoio emiliano si dotarono così degli «ospedali di San Lazzaro», tutti a levante (il pericolo proveniva dal mare) ad eccezione di Forlì, e tutti a circa 3 km dalle mura. Allora come oggi le città si nutrivano di movimento, vale a dire di disordine, da trasformare in ordine. E non soltanto allora la ricetta funzionò, ma fu proprio l’esigenza di far fronte in maniera collettiva al contagio a ripristinare la materiale continuità e la coerenza funzionale della grande strada, alquanto fratturata dalla crisi dei secoli precedenti.
Fu in tal modo che il nastro urbano emiliano riuscì finalmente a trarre partito dalla perturbazione, iniziata con il crollo dell’impero romano, per rinchiudersi in maniera diversa su se stesso, generando nuovi ruoli ed attività in grado di mantenere ed anzi rinvigorire l’originario funzionamento, e preservando in tal modo la propria costituzionale identità. Allora si trattava di contemperare le opposte dinamiche e le tensioni proprie di tre diversi e antagonisti soggetti territoriali: i liberi comuni, gli stati regionali in via di formazione come quello di Matilde di Canossa, l’impero. Oggi le logiche da contemperare sono quelle delle singole città, delle regioni, dello stato nazionale, dell’Unione Europea e infine della globalizzazione, l’agente più potente e sprovvisto di perimetro. E le infrastrutture che presiedono alla riproduzione della vita quotidiana sono diverse da quelle di un tempo, anche se molto meno di quanto in genere si pensi. Resta però il fatto che il passaggio dal disordine verso un nuovo ordine ( perché di questo, comunque e quando vada a finire, si tratta) implica il conflitto tra gli elementi in via di riorganizzazione: un conflitto che richiede anzitutto, come sempre in questi casi accade, di essere pensato perché possa essere produttivo. È al riguardo che la responsabilità di una città come Bologna appare maggiore delle altre: non semplicemente perché capoluogo, ma perché centro storico della messa a punto dei modelli e delle pratiche che presiedono all’assetto regionale, e alle relazioni della nostra regione con il resto del mondo. Senza la necessità di reinventare le regole del rapporto tra i tre soggetti territoriali allora esistenti lo Studio bolognese non sarebbe mai sorto. Così tocca adesso alla sua erede, l’Università, pensare la crisi. Siamo tutti davvero lieti che le più recenti statistiche internazionali confermino l’eccellenza dell’Alma Mater. E tutti ci rendiamo conto di come le misure fin qui adottate (chiusura delle aule, didattica a distanza) siano mosse obbligate, ma difensive e perciò passive. Non bastano però. Gli esseri umani si muovono e si toccano, è questo che il virus ci costringe a ricordare. E siamo impotenti di fronte a tale nuda verità perché tutta l’epoca che qui finisce, la modernità, è stata costruita, per quanto possa sembrare strano, su criteri opposti: che la gente stia ferma e che a relazionarsi con quel che ci circonda basta la vista. Questo mondo è finito e si tratta di pensarne un altro, riassettando i rapporti tra gli elementi di quello che ci lasciamo alle spalle. Vincerà, anche in termini economici, l’intelligenza locale più rapida e nervosa. È bene sapere che siamo già in gara.