«Ma questi esami non sono affatto un patentino»
Fausto Francia: «Efficacia tutta da dimostrare. Ma bene farli prima ai sanitari»
«Non credo che con test sierologici diffusi si possa conseguentemente parlare di “patentino di immunità”, è un discorso complesso». Fausto Francia, ex direttore del dipartimento di Sanità pubblica dell’Ausl di Bologna ed ex presidente della Società Italiana di Igiene, invita alla prudenza su un utilizzo di massa dei dispositivi dei quali si parla molto negli ultimi giorni.
Francia, ci aiuti a fare chiarezza.
«Innanzitutto l’efficacia di molti test è da dimostrare. C’è chi ha tanti dubbi e chi meno, chi parla di attendibilità al 70% e chi più alta. L’obiettivo nelle ultime settimane si è spostato sulla ricerca degli asintomatici ma è anche vero che ancora non sappiamo tante cose in merito a questo coronavirus. Che tipo di immunità sviluppiamo? E di che durata? Secondo me più che di patentino dovremmo parlare di foglio rosa, nel senso che in ogni caso bisogna ripetere quel test».
Si è partiti con gli operatori sanitari. Giusto farlo?
«Questo sì, nell’ottica di alcune categorie ritengo positiva questa scelta. Serve per tranquillizzare i lavoratori ma è utile anche per capire come comportarsi nei confronti dei pazienti ricoverati. Ma in qualunque caso non dovrà mai portare a una diminuzione delle attenzioni nei confronti dei dispositivi di protezione individuale. Medici e infermieri lo devono per difesa personale ma anche per chi è in cura nelle strutture. Dal punto di vista generale credo che sarebbe più utile fare un’altra cosa».
Cosa?
«Un’indagine di popolazione. Prendendo un campione attendibile si potrebbe studiare chi ha sviluppato gli anticorpi e chi no. Esempio: mille bolognesi, stratificati per età sulla base della composizione anagrafica. Questo ci fornirebbe un dato che aiuterebbe a prendere altre decisioni. Se si vede che il 20%, o di più, ha sviluppato anticorpi è un conto, se è solo il 2% è un altro. Questo per dire che se il test sierologico mi individua quel 2% capiamo tutti che serve a poco. A Genova per esempio stanno iniziando a farlo analizzando il sangue dei donatori che si sono presentati da gennaio a fine marzo: il limite è che sono perlopiù persone giovani e in salute. Ho letto con interesse delle aziende che vogliono pagarlo per i propri dipendenti, ma prima bisogna capire con un’indagine se è utile farli».
La necessità di dover ripetere il test pone poi il problema della capacità di analisi su un campione molto vasto...
«C’è anche quel tema. Leggo che in Veneto lo vogliono fare su tutta la popolazione. Parliamo di 4 milioni e più di abitanti. Immagino che anche lì si sceglierà da chi partire ed escludendo a lungo delle persone, come gli anziani».