Dal Mediterraneo agli ospedali Vita in corsia dei sanitari delle ong
Roberta, Giorgio e Stefano: «Non siamo eroi, salviamo vite come in mare»
Strappare vite umane alla morte, «ieri come oggi, a terra come in mare». Roberta Silvaggi, 32 anni, infermiera della Rianimazione pediatrica del Sant’Orsola, appena è scattata l’emergenza ha accettato di essere trasferita nella terapia intensiva Covid. Lei e altri 120 tra medici e infermieri dello staff sanitario della ong Mediterranea ormai da un mese sono arruolati tra le corsie degli ospedali di tutta Italia, in prima linea contro il virus che ha abbattuto ogni confine. Ma, scrive su Facebook Roberta dopo l’ennesimo turno di cui non si contano le ore, sotto la sua foto con il viso segnato da visiera e mascherina, «non ci sono eroi, quello che faccio oggi è quello che facevo ieri e che farò domani, ovunque ci sarà bisogno, su una nave o in un ospedale».
A marzo avrebbe dovuto salpare per il Mediterraneo sulla nave Mare Jonio in missione di salvataggio. A chi si chiede dove siano le ong «rispondiamo che siamo qui, dove c’è più bisogno di noi e dove saremo anche domani» spiega Stefano Caselli, infermiere di sala operatoria a Bologna e coordinatore del team sanitario di Mediterranea. Nel pronto soccorso del Sant’Orsola c’è anche Giorgio, medico di emergenza e volontario della missione 74 di OpenArms. Sia Stefano che Roberta sono volontari del laboratorio di salute popolare di Làbas, oggi fisicamente chiuso per motivi di sicurezza, ma attivo tutti i giorni con tre linee telefoniche per supporto medico e psicologico, per cercare comunque di continuare a dare una mano. «Riceviamo una trentina di telefonate al giorno — spiega Stefano —, molte da operatori dell’accoglienza totalmente abbandonati a se stessi perché non è stata affrontata la questione del distanziamento sociale nei centri per migranti. Senza andare lontano in via Mattei ci sono 200 persone senza alcuna protezione». Poi chiamano i migranti che hanno problemi con l’italiano e hanno bisogno di capire le istruzioni governative, gli anziani soli in preda all’ansia che vengono messi in contatto con lo staff di psicologi.
In terapia intensiva, invece, racconta ancora Roberta, «è faticoso lavorare bardati, la mascherina ti toglie l’aria, ma il carico più pesante è quello emotivo. I pazienti affrontano la malattia e la morte completamente soli, noi siamo il loro unico contatto umano. Chi si risveglia è spaesato, non sa dove si trova». Come chi viene salvato da un naufragio. Eppure la vera sfida, conclude Roberta, «non è oggi ma domani. Ricordiamoci della sanità pubblica e dei tagli che ha subito».«Il timore — prosegue Stefano — è che la paura del contagio sarà ancora utilizzata per fare propaganda, per inasprire i blocchi. Invece questo virus non è arrivato dall’Africa, ma dalle zone più industrializzate»