Il virus ferma metà delle aziende In 16 mila chiedono la deroga
Sono 174.569 le imprese essenziali attualmente operative in Emilia-Romagna, il 47,6% del totale. All’interno di esse ci sono 761.230 addetti, il 48,1% dei dipendenti complessivi.
Mentre le richieste di deroga ai cosiddetti codici Ateco ammessi alla produzione inviate ai prefetti continuano a salire (siamo a quota 15.980 secondo i dati della Uil), arriva la stima di quello che dovrebbe essere l’esistente. La fotografia è scattata da Ires, l’Istituto di ricerche economiche e sociali nato in seno alla Cgil nei primi anni Ottanta. Secondo il focus dell’Ires, e al netto delle eccezioni che le prefetture ammetteranno entro questa settimana (sono già state già autorizzate 1.445 realtà aggiuntive solo nel Bolognese mentre in provincia di Modena sono oltre 4.000 quelle che spererebbero nell’ok a operare), le attività produttive con la serranda abbassata dovrebbero essere di più: le 192.293 non considerate necessarie sul totale delle 366.862 attive normalmente. Si tratta di un’analisi aggiornatissima, chiusa ieri, che incrociando diverse fonti — l’archivio Asia, l’Aida Bureau Van Dijck e la banca dati CoeWeb di Istat — dà conto di un mondo economico spaccato in due: da una parte chi può produrre, dall’altra chi si deve bloccare per decreto. Ma che, salvo deroghe e controlli incrociati di Guardia di Finanza, Vigili del Fuoco e Ispettorato del Lavoro, non è detto lo farà.
Lo zoom Ires ha un piccolissimo limite, però superato dalla realtà che vede ferme, per esempio, le «grandi» dell’automotive e operativi settori come packaging, medicale e dell’agroalimentare: non include nel campo di osservazione attività come agricoltura, silvicoltura, pesca, l’amministrazione pubblica e della difesa o attività di famiglie come datori di lavoro per il personale domestico.
I dati, scorporati per singole province, ci regalano, almeno per il territorio di Bologna, una grande speranza: la nostra area metropolitana si rivela più resistente di altre. A Bologna le imprese essenziali sono 44.912 per 210.382 lavoratori (contro 42.396 non essenziali con 211.637 lavoratori), 27.138 a Modena, 11.410 a Ferrara, 10.663 a Piacenza, 18.663 a Parma, 18.031 a Reggio Emilia, 13.695 a Ravenna, 15.125 a Forlì-Cesena e 14.932 a Rimini. «Il “combinato disposto” dato dalle specializzazioni territoriali e dal processo selettivo attuato nell’emergenza si è riverberato sulle strutture produttive locali, determinando rilevanti differenze tra aree — spiega la ricercatrice Ires, Daniela Freddi — . Tali differenze potrebbero generare divergenti livelli di criticità nell’uscita dall’emergenza». Basti pensare al fatto che l’area del parmense, con la sua filiera alimentare, è la meno interessata alla sospensione o che Modena e Reggio Emilia, forti nella meccanica, ceramica e tessile, potrebbero subire contraccolpi maggiori. «L’area metropolitana di Bologna, grazie al suo tessuto diversificato e ad alto valore aggiunto — auspica Freddi —, potrebbe presentare nel complesso una buona capacità di resilienza».