ALZARE LO SGUARDO
Sostiene Vincenzo Colla, assessore regionale al Lavoro e allo Sviluppo: «Non possiamo affidare alle prefetture la politica industriale; ringraziamo i prefetti, ma non è il loro mestiere» (Corriere di Bologna, 16 aprile). Negli stessi giorni, Claudio Pazzaglia, direttore di Cna Bologna, ha avvertito: «Bisogna considerare che per un artigiano l’impresa è tutta la vita, una seconda famiglia in cui si vive anche gomito a gomito con i dipendenti» (Corriere di Bologna, 17 aprile). Infine, Valter Caiumi, presidente di Confindustria Emilia, ha posto sul tavolo la questione-chiave: «Bisogna liberare le forze delle nostre imprese. Le imprese che non sono meritevoli restino chiuse, ma qua, a differenza delle aziende aperte all’estero, che ora insidiano l’export, non riusciamo a soddisfare il minimo della filiera» (Corriere di Bologna, 18 aprile).
Ora, che cosa ci dicono – nel loro insieme - queste testimonianze? C’è, innanzitutto, un orizzonte di breve periodo (queste settimane, i prossimi mesi) nel quale l’imperativo categorico è rappresentato dalla «ripartenza»: dai tempi e dai metodi per la progressiva riapertura delle attività economiche (manifattura, edilizia, commercio, ristorazione, turismo, ecc.) in condizioni di assoluta sicurezza per i dipendenti (Ferrari di Maranello docet).
Ec’è, alzando lo sguardo al di là dell’emergenza, un orizzonte di medio-lungo periodo nel quale gettare le basi della «ricostruzione» della nostra economia. Il primo orizzonte è assai dibattuto, il secondo merita qualche considerazione in più. Se un paese conserva il ruolo di seconda manifattura d’Europa, dopo la Germania e prima della Francia, può permettersi il lusso di considerare la politica industriale uno strumento démodé? Eppure, è esattamente ciò che l’Italia ha fatto negli ultimi anni (decenni) e, ancor più colpevolmente, è ciò che ha continuato a fare anche dopo il grande crac finanziario del 2008. La domanda diviene: come fa il nostro Paese, nonostante tutto, a conservare quel piazzamento d’onore nella Champions League della manifattura?
Entrano qui in gioco le eccellenze imprenditoriali italiane, che lungo la Via Emilia sono presenti in grande quantità. Difatti, PMI, distretti, filiere, grandi imprese e multinazionali contribuiscono a formare un vero e proprio ecosistema dove l’innovazione tecnologica, la formazione delle risorse umane e l’attenzione alla sostenibilità rappresentano un patrimonio sempre più condiviso. Siamo però di fronte a un dilemma: questo ecosistema potrà ritornare ciò che era prima dello tsunami che ha investito la nostra società; oppure ci restituirà l’immagine di una tela spezzata. I dati sul tracollo del Pil italiano (le stime per il 2020 vanno da un -6% a un -10%) lasciano pochissimo spazio alla fantasia. È proprio qui che le politiche pubbliche devono dispiegare i loro effetti: fra queste, certo, l’iniezione di liquidità, la cassa integrazione, il sussidio per le partite Iva, i buoni spesa. Tutte azioni sacrosante e da (ri)finanziare copiosamente con tutte le risorse nazionali ed europee (Bce, Bei, Sure, Mes, Recovery Fund) che si stanno rendendo, via via, disponibili. Ma guai a dimenticare l’orizzonte di medio-lungo termine dove, per restare all’industria, è ragionevole attendersi non pochi cambiamenti nell’organizzazione internazionale della produzione. Vale a dire, il passaggio da una frammentazione (o «spacchettamento» per dirla con Richard Baldwin) della produzione in catene del valore disseminate su scala globale alla formazione di piattaforme continentali quasi autosufficienti (o «globalizzazione su base regionale» per usare le parole di Romano Prodi), l’Unione europea per quel che ci riguarda.
Questo passaggio, per un paese come l’Italia è una sfida da cogliere. E lo è soprattutto per una regione aperta agli scambi internazionali come l’Emilia. Servirà una politica industriale lungimirante, con una razionale divisione dei compiti fra Stato e Regioni. Il primo dovrebbe farsi parte attiva nell’elaborazione e nell’implementazione della nuova politica industriale dell’Ue, centrata sugli investimenti nelle tecnologie abilitanti e nei settori strategici. Le seconde dovrebbero rafforzare gli investimenti in conoscenza più vicini al territorio, come l’istruzione tecnica e la ricerca applicata. Nell’attesa di novità lungo l’asse RomaBruxelles, non è poco sapere che in Emilia non si parte da zero.