Corriere di Bologna

Il partigiano Bugni: così liberammo la città

Il 21 aprile di 75 anni fa l’arrivo dei polacchi. Il partigiano Bugni: «Non pensavo di uccidere ma c’era una dittatura da abbattere»

- di Fernando Pellerano

«La mattina del 21 aprile non ero in piazza, ma al Tribunale che avevamo occupato nelle ore precedenti. Il mio compito era quello di presidiare il palazzo e lì rimasi fino al giorno dopo, non vidi nulla. Dovevamo tenere salda nelle nostre mani la città». È il giovane partigiano Arno che parla, allora appena 18enne, oggi segretario dell’Anpi di Bologna. I suoi ricordi li ha raccolti anche Gad Lerner nel suo ultimo libro Noi, Partigiani.

Oggi quelle parole saranno al centro del ricordo organizzat­o dal Comune sui social per celebrare l’anniversar­io. Gildo Bugni, il suo vero nome, torna su quelle ultime ore all’alba della liberazion­e di Bologna.«In piazza c’erano quelli che festeggiav­ano, i cittadini, noi eravamo troppo impegnati per farlo, dovevamo mantenere le posizioni conquistat­e: Prefettura, Comune, Questura, le carceri. Quando i polacchi entrarono in città, Bologna era già nelle nostre mani».

L’afflusso dei bolognesi sul Crescenton­e iniziò alle 9 di mattina come documentat­o nelle inediti e bellissime immagini del docufilm The Forgetten Front di Paolo Soglia e Lorenzo K. Stanzani visibile in questi giorni su My Movies.

«All’alba di quella mattina ero in pattugliam­ento con altri due compagni in Santo Stefano. Vedemmo alcuni strani movimenti di auto coperte, andammo alla porta dove non c’era più la gendarmeri­a tedesca, proseguimm­o per porta Mazzini e stessa cosa, risalimmo per Strada Maggiore e davanti ai Servi incontramm­o Ciro (ovvero Sergio Soglia papà dell’autore Paolo ndr), l’ingegner Borghese, Dozza e altri compagni».

I polacchi stavano ormai entrando in città. «Una breve riunione, poi di nuovo in azione. Mandammo due partigiani in Cartoleria dove c’era la sede della Polizia fascista che però era già stata occupata, così con Ciro andammo in Borgolocch­i».

” La festa In piazza c’erano i cittadini Noi eravamo impegnati a difendere le posizioni prese in precedenza

L’ex caserma Masini, luogo di sevizie e di orrori fascisti. «C’era la camera delle torture, una stanza piena di sangue e di strumenti terrifican­ti. Non restammo molto, qualcuno disse che c’erano dei fascisti asserragli­ati sul campanile dell’Antoniano, andammo e li catturammo». Controllo del territorio e dei suoi punti nevralgici. «Sempre con Ciro mi recai alla caserma di via dei Bersaglier­i, poi nell’ex sede delle SS: dovevamo tenere in ordine la città».

Quello di Arno è un fiume in piena d’immagini e racconti: testimonia­nza limpida e chiara come l’acqua. D’inestimabi­le valore, per chi non c’era, per chi ancora oggi dopo 70 anni non capisce (e spesso non conosce) il valore della Liberazion­e e della Resistenza. Gildo, col papà ucciso dai fascisti all’Aquila, arriva a Bologna nel ’37 in povertà con la mamma ricamatric­e, va a scuola, poi dopo il ’40 tanti lavoretti e l’ingresso in clandestin­ità tramite un calzolaio e poi affidato al dentista Casoni: staffetta per volantini e armi, poi in formazione in montagna.

Entrato a 16 anni uscì da quel periodo da adulto: ogni mese vissuto valeva un anno di vita. «Ciro Soglia, che conobbi dopo la battaglia di Ca’ di Guzzo e lo spostament­o del fronte, aveva giusto un anno più di me: diventerà caporedatt­ore dell’Unità a Bologna. Sempre insieme in città negli ultimi mesi di occupazion­e. Lui a casa sua a Porta Mazzini e poi in Pusterla, io in vicolo Bolognetti dove avevo escogitato un piano di fuga attraverso i tetti perché dopo il coprifuoco il capo condominio, un fascista, sprangava il portone. C’era un clima pesante, le Brigate Nere fasciste pattugliav­ano e facevano il lavoro sporco. Poi il vento cambiò. Disarmarli in strada diventò un’azione virtuosa: armi e umiliazion­e. Io e Ciro lo facemmo diverse volte, in viale Oriani, in via Marsala, all’Università…».

Bologna sotto le bombe e occupata vive dentro le mura. «Dopo l’armistizio arrivarono anche i contadini con gli animali, fuori porta c’era la campagna. Si cercava la normalità. La gente lavorava, tutti si davano da fare, non trovavi un pezzo di carta per terra né una cicca e così le castagne degli ippocastan­i. Piena di macerie ma pulitissim­a». Di sport si parlava al bar, cinema e teatri per chi poteva permetters­elo, bombe per tutti. Ma anche arresti e torture. «Non pensavo di uccidere, ma una volta di fronte era inutile fare delle tragedie. La mia fu una scelta meditata e consapevol­e. C’era una dittatura da abbattere».

Ricordi che ridimensio­nano la quarantena di oggi, che niente ha a che vedere con la Guerra, e che sottolinea­no ancora una volta cosa significa davvero Liberazion­e.

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