Gli anestesisti, gli occhi prima del buio
Elogio dei medici che hanno avuto un ruolo chiave nell’emergenza: le loro storie
Nel mondo rivoltato dal virus abbiamo imparato a conoscere i dottori che lavorano all’ombra delle lampade scialitiche e sono sempre mascherati: gli anestesisti. Chissà quante volte hanno tenuto in braccio noi per una appendicite o i nostri nonni per una protesi, ma solo ora capiamo quanto il loro lavoro sia prezioso.
Si deve sapere che gli anestesisti sono vittime di un malinteso: si dice che fanno dormire. Si tratta di una diceria, anche perché molti di noi ne conoscono alcuni davvero simpatici (ma anche parasimpatici). Sono infatti, i custodi di confidenze involontarie, terribili o comiche, spesso più esilaranti dei gas che le provocano. Come non esiste un neonato senza la madre, non esiste un malato chirurgico o grave senza l’anestesista. Un malato vero entra nel fiume del tempo per risalire con una barchetta di carta fino all’utero. L’ anestesista diventa sua madre. E non lo culla soltanto, ma provvede a tutti i parametri vitali di sangue e d’aria, di calore e chimica premurosa. È una madre adottiva che inventa nenie ipnotiche, mette tubi ombelicali in ogni dove e a cui può capitare di dire addio allo strano figlio prima che lui possa riconoscerla e dirgli, di nuovo in possesso dell’io, grazie. In questo misconoscimento sta tutta la grazia e l’umiltà, per non dire il masochismo dell’anestesista. Uno dei più difficili e rischiosi: quanti libri sudati, albe lattiginose e fredde sale per fare di un tesista un anestesista. Con l’anestesia, la Dormia bolognese, si entra in una terra di mezzo che non è una regione di Arda, ma un posto senza tempo e senza dolore governato da umbratili signori degli Anelli (tracheali), dove il fentanile e una scienza fantastica servono più della fantasia. Fino a due mesi fa, forse non tutti avevamo chiaro come la nostra vita dipenda dal passaggio di un filo d’aria tra le corde vocali, e poi la trachea, per arrivare ai polmoni. E dipenda anche dai dottori che ci capiscono un tubo. Gli anestesisti svegliano il tempo. Lo rubano, lo comprano alla malattia trattando i giorni che servono perché passi. Se lo passano nei cambi di guardia come un bambino da una donna a un’altra, spingendo la notte più in là. Con tutte le specialità visibili, gratificanti e remunerative che ci sono perché mai uno fa l’anestesista? C’è una ricompensa taciuta, beata e comprensibile solo in questi giorni di distanze. Le loro mani hanno il privilegio, ora raro, di toccare altre mani, altri corpi, altri visi. Da sempre il loro sguardo parla più delle parole e sa mirare pupille inconsce, carpirne dal nero il luogo del sonno, prossimo o irraggiungibile. La chiamano miosi o midriasi, loro, mistero e luce delle parole. Se in questi giorni di addii non dati, potessimo vedere le pupille sopra la mascherina che ci sta telefonando nell’ora più buia, vedremmo specchiato il volto che ci ha amato, e che ce lo voleva dire, almeno con gli occhi di un anestesista.