MASCHERINE E GALATEO
Fase 2: una questione di rispetto. Volendo, potendo, anche di stile. Come convivere con la mascherina? È, forse, questo il vero interrogativo di questi strani giorni? Da un po’ di tempo dilaga il dibattito. Se sia utile o dannosa, certificata o no, accompagnata o disgiunta ai guanti, reperibile o no. Funziona più o meno così nei primi giorni di un timido o prudente far capolino fuori dall’uscio di casa. La mascherina come iconografia ufficiale della pandemia, al contempo ribaltamento visivo e inarcamento sullo sguardo. Occhi stanchi, vivaci, in apprensione, felici, fermi, guizzanti mediano culturalmente e operativamente il nostro rapporto con la quotidianità. Oltre la semplice raccomandazione a indossarla, al di là del puro e semplice adeguarsi al tempo pandemico. È tutto questo insieme che contraddistingue la necessità di un filtro e una membrana fra noi e gli altri, la cui rappresentazione rinvia a una ricca iconografia sulla pestilenza, in saecula saeculorum, ma anche e soprattutto a un drastico cambio di prospettiva. Dietro la mascherina opera un doppio flusso che unisce una nuova etichetta sociale e nuove evidenze scientifiche.
Se lavarsi le mani e la distanza sociale di un metro, in taluni casi uno e mezzo, sono stati le prime istruzioni per ridurre il contagio, circa l’uso delle mascherine il dibattito è stato più controverso. Ora, al controllo della malattia si aggiunge una noterella di dress code, tale da farne una vera e propria questione di stile, non solo di utilità ed efficacia del dispositivo sanitario di pubblica utilità. La protezione di naso e bocca è in linea con una nuova modalità di guardare la realtà nel tempo della nuda vita che impegna il recente dibattito politico e culturale. Non a caso, l’attenzione sull’indossare o meno la mascherina impegna, diuturnamente, i processi di stigmatizzazione, viceversa, di assoluzione, a fronte di una non immediata chiarezza istituzionale sull’uso appropriato o meno. A partire dagli altri e non da se stessi, anche se potrà capitare di dover rispondere all’improvviso alla domanda, stizzita, sorpresa: «Non mi riconosci? Sono io». Nella consapevolezza che il tema non sia quello della mera contrapposizione fra viso aperto e viso celato, piuttosto, dello sguardo con cui analizzare i grandi e piccoli insegnamenti della tragica pandemia. Gli approcci alla mascherina, di fatto, variano lungo un diapason emotivo estesissimo: dalla disobbedienza sino allo scrupolo estremo. Probabile effetto perverso del sovraffollamento di pareri e contro pareri, norme disciplinari, forti raccomandazioni e sensibilizzazioni a corrente alternata. Chiaro che nella mascherina confluisca palesemente una doppia esigenza: quella sanitaria e, per così dire, una piccola grande istituzionalizzazione di un neo-codice del galateo al tempo della pandemia. A complemento di dandy che studiano il modo per far spuntare l’elastico della mascherina da un taschino o facendola pendere da un polso, ai distratti come me che, spesso, la dimenticano appesa a un lobo. A latere, la declinazione narcisistica tipo bandana sul collo. Prendere le misure con la mascherina significa anche altro: fare i conti, anzitutto, con la propria personalità strutturandola non più esclusivamente nel mero edonismo. Non è uno scherzo calarsi in una dimensione quotidiana tratteggiata da distanze e dispositivi che inibiscano il contatto. In questi giorni, un po’ distopici, un po’ strani, molto, ma molto imprecisati. Mezzi pieni, mezzi vuoti.