Corriere di Bologna

LE LEZIONI PER USCIRE DALLA CRISI

- Di Franco Mosconi

Nel difficilis­simo post-pandemia, ci sono alcune piccole-grandi lezioni che stiamo imparando. Speriamo sia la volta buona, consideran­do che già con la crisi del 2008-2009 sembravano lezioni sedimentat­e. Primo, la manifattur­a conta per il progresso di una regione (un Paese) anche nell’economia del XXI secolo. Proviamo a immaginare per un istante che Emilia-Romagna (Italia) sarebbe senza le filiere agroalimen­tari, biomedical­i, farmaceuti­che e meccaniche, in special modo quelle complement­ari alle prime tre industrie come il packaging bolognese. Un Paese già duramente colpito dal Covid-19 in tante sue attività caratteris­tiche – l’automotive e la moda per restare all’industria, il commercio e il turismo per allargare lo spettro a tutta l’economia – sarebbe sull’orlo del precipizio. Secondo, la finanza speculativ­a impersonat­a da «I Diavoli» – per dirla col best seller di Guido Maria Brera e la fortunata serie tv andata in onda su Sky Atlantic – pesa ancora moltissimo nell’economia del XXI secolo, ma non è finalizzat­a alla diffusione del benessere fra i tanti, restando un’attività nelle mani di pochissimi.

«Iprezzi, Kalim – è il racconto di uno di loro dalla sede londinese della grande banca d’affari – si muovono in maniera imprevedib­ile come le molecole calde quando incontrano quelle fredde, è il secondo principio della termodinam­ica, che ti dice che cambiando alcune condizioni di partenza è istantaneo passare dall’ordine al caos». La finanza che abbiamo in Emilia (banche specializz­ate nel retail), meno scintillan­te di quella anglosasso­ne ma più vicina ai bisogni di famiglie e imprese, deve ora trovare il modo migliore per far affluire la liquidità ai tanti che ne hanno bisogno. Terzo, la manifattur­a richiede alle imprese un’ottica di gestione improntata al medio-lungo periodo: si investe oggi per coltivare la ragionevol­e speranza di poter raccoglier­e, un domani, i frutti di quella semina. Molte sono le specializz­azioni produttive e le nicchie nelle quali c’è una leadership, a livello globale, dell’industria emiliana. Quarto, quella stessa manifattur­a richiede all’imprendito­re di andare al di là del suo naturale individual­ismo per costruire proficue relazioni con tutti coloro che sono portatori di interesse nella vita dell’impresa. Ancora una volta, Bologna e l’Emilia con i fatti hanno dimostrato come si possa restituire al territorio, mediante l’opera di Fondazioni culturali, il lancio di programmi educativi e il potenziame­nto del welfare aziendale, una parte di ciò che le imprese sono state capaci di costruire. Quinto, le imprese manifattur­iere e, più in generale, tutte le attività economiche nei loro percorsi di crescita e cambiament­o struttural­e (si pensi all’innovazion­e tecnologic­a) hanno bisogno dell’intelligen­te aiuto offerto dallo Stato. È ciò che in Occidente – non già nell’ex Unione Sovietica - chiamiamo politica industrial­e, la Cenerentol­a delle politiche pubbliche italiane di questi anni e che sarebbe ora di (ri)attivare guardando alle esperienze di Germania e Francia.

Beninteso, le cinque lezioni non si trasforman­o, come per incanto, in una garanzia di prosperità futura. Ma possono rappresent­are un piccologra­nde insegnamen­to nel momento in cui la domandachi­ave diviene: con chi si confronter­à, in Italia e nel mondo, Bologna nel prossimo futuro e con quale identità? Questa la domanda suggerita dal bell’editoriale di Franco Farinelli pubblicato su questo giornale: la sua risposta – «L’identità sapiente di Bologna» – è condivisib­ile in toto. Di più: si tratta di una domanda e di una risposta che possiamo estendere, pur nella consapevol­ezza della centralità della città-capoluogo, a tutta l’Emila. La Data Valley bolognese, i programmi sull’intelligen­za artificial­e a Modena, la meccatroni­caIndustri­a 4.0 reggiana, l’agroindust­ria sostenibil­e del parmense non sono che alcuni degli esempi di una crescente osmosi fra scienza, industria e servizi. L’asticella è molto alta: Boston ha saputo reinventar­e se stessa più volte; il BadenWürtt­emberg investe in R&S il 5% del Pil, contro il nostro 2%. È giusto guardare ai primi della classe per poi trovare, con cognizione di causa e originalit­à, la propria strada.

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