QUELLE STRADE SENZA BAR
La premessa è d’obbligo: non si tratta di elogio, tantomeno di elegia. Di un dato di fatto penso si possa parlare senza allarmismi o facilonerie, tuttavia, a giudicare dai numerosi cartelli che comunicano, ancora, la momentanea chiusura dei bar, il quadro racconta di una forte difficoltà. Ancor più, quegli sguardi nel vuoto che capita d’intercettare di là da un bancone, quasi fossimo catapultati nella quotidianità sospesa e alienata di un quadro di Edward Hopper. L’estrema solitudine di un bar chiuso. Non è una novità, piuttosto, rappresenta la riconferma della grande fatica di moltissimi esercizi commerciali nel ritornare ad una certa normalità dopo il Covid-19. Però, però…un bar non è solo un bar. Vederne di chiusi, le serrande abbassate, in un diffuso senso d’abbandono rattrista non poco. La prova provata che la pandemia ha creato, distrutto, soprattutto, cambiato la vita, al punto da farla finire ad un bar. A svanire è l’incanto, aspetto fondante sviscerato da Goliarda Sapienza nel delizioso pamphlet «Elogio del bar»: equilibrio precario fra sorte e opportunità di un luogo, di un posto dove trovare un proprio posto, per sentirsi così.
Un bar in meno equivale, si parva licet, ad un lavacro di socialità, ad una delle tante occasioni in meno d’incontro e di scontro, indipendentemente dalla qualità del caffè e dall’insostenibile presenza di cornetti industriali. Il bar è ritualità, comunicazione, relazione. A caratteri cubitali, splendidamente frutto d’occasione, nei bar, anche i più «sgrausi» diventa possibile scrivere storie di vita, biografie minime, di passaggio. Un bar è composto da mille colori e altrettanti umori.
Ha in sé la funzione di un catalogo costantemente aperto sulla possibilità, non semplice luogo di ristorazione, ma invenzione di un mondo. E di un modo, popolare, popolano, verace racchiuso nella definizione tascabile: «da bar». Discorsi, tipologie, gestualità tragicomiche che, temo, rischino di perdersi nell’indistinzione, nell’irrilevanza, nell’anonimato. Una strada senza un bar è improvvisamente e irrimediabilmente fredda, anodina, senza atmosfera. Certo i portici, gli altri esercizi commerciali, ma un bar incarna una certa idea di mondo, più esattamente, di stare al mondo, in mezzo ad un frullato di vite sospese e danneggiate. Proprio così, il bar, in quanto microcosmo sociale dovrebbe rivestire, ancora e più di una volta, il ruolo di avamposto alle temperie e alle incombenze della fase due o tre dopo la pandemia.
Perché non si può morire dentro per troppo storytelling se non si ritorna ai fondamentali di un seppur minimo e contingente transito per un bar.
Dove allenare lo sguardo laterale, coltivare la sorpresa, andare oltre le spiegazioni strutturali legate al sillogismo più smartworking, meno pausa panino coi colleghi, alla ricerca delle linee paradossali che due o tre chiacchiere su sedie traballanti possono assicurare ad astanti e convenuti. Un bar che non riapre inceppa da subito il meccanismo di una possibile ripresa. Punto interrogativo pressante sull’avvenire, cioè su ciò che è e che potrà essere. Non per smania eccentrica, ma per una semplice constatazione, una mera informazione: al bar si è tutti uguali, si parte tutti dalla stessa linea. Tutti dettagli che fanno la differenza nel mondo. Le saracinesche abbassate, le vetrine vuote, i banconi abbandonati come rovine di un passaggio imprevedibile. Un grido d’allarme da non sottovalutare. Per ricominciare con un rendez-vous, per dirla e cantarla con Paolo Conte de «Gli impermeabili».