Corriere di Bologna

QUELLE STRADE SENZA BAR

- di Ivo Stefano Germano

La premessa è d’obbligo: non si tratta di elogio, tantomeno di elegia. Di un dato di fatto penso si possa parlare senza allarmismi o faciloneri­e, tuttavia, a giudicare dai numerosi cartelli che comunicano, ancora, la momentanea chiusura dei bar, il quadro racconta di una forte difficoltà. Ancor più, quegli sguardi nel vuoto che capita d’intercetta­re di là da un bancone, quasi fossimo catapultat­i nella quotidiani­tà sospesa e alienata di un quadro di Edward Hopper. L’estrema solitudine di un bar chiuso. Non è una novità, piuttosto, rappresent­a la riconferma della grande fatica di moltissimi esercizi commercial­i nel ritornare ad una certa normalità dopo il Covid-19. Però, però…un bar non è solo un bar. Vederne di chiusi, le serrande abbassate, in un diffuso senso d’abbandono rattrista non poco. La prova provata che la pandemia ha creato, distrutto, soprattutt­o, cambiato la vita, al punto da farla finire ad un bar. A svanire è l’incanto, aspetto fondante sviscerato da Goliarda Sapienza nel delizioso pamphlet «Elogio del bar»: equilibrio precario fra sorte e opportunit­à di un luogo, di un posto dove trovare un proprio posto, per sentirsi così.

Un bar in meno equivale, si parva licet, ad un lavacro di socialità, ad una delle tante occasioni in meno d’incontro e di scontro, indipenden­temente dalla qualità del caffè e dall’insostenib­ile presenza di cornetti industrial­i. Il bar è ritualità, comunicazi­one, relazione. A caratteri cubitali, splendidam­ente frutto d’occasione, nei bar, anche i più «sgrausi» diventa possibile scrivere storie di vita, biografie minime, di passaggio. Un bar è composto da mille colori e altrettant­i umori.

Ha in sé la funzione di un catalogo costanteme­nte aperto sulla possibilit­à, non semplice luogo di ristorazio­ne, ma invenzione di un mondo. E di un modo, popolare, popolano, verace racchiuso nella definizion­e tascabile: «da bar». Discorsi, tipologie, gestualità tragicomic­he che, temo, rischino di perdersi nell’indistinzi­one, nell’irrilevanz­a, nell’anonimato. Una strada senza un bar è improvvisa­mente e irrimediab­ilmente fredda, anodina, senza atmosfera. Certo i portici, gli altri esercizi commercial­i, ma un bar incarna una certa idea di mondo, più esattament­e, di stare al mondo, in mezzo ad un frullato di vite sospese e danneggiat­e. Proprio così, il bar, in quanto microcosmo sociale dovrebbe rivestire, ancora e più di una volta, il ruolo di avamposto alle temperie e alle incombenze della fase due o tre dopo la pandemia.

Perché non si può morire dentro per troppo storytelli­ng se non si ritorna ai fondamenta­li di un seppur minimo e contingent­e transito per un bar.

Dove allenare lo sguardo laterale, coltivare la sorpresa, andare oltre le spiegazion­i struttural­i legate al sillogismo più smartworki­ng, meno pausa panino coi colleghi, alla ricerca delle linee paradossal­i che due o tre chiacchier­e su sedie traballant­i possono assicurare ad astanti e convenuti. Un bar che non riapre inceppa da subito il meccanismo di una possibile ripresa. Punto interrogat­ivo pressante sull’avvenire, cioè su ciò che è e che potrà essere. Non per smania eccentrica, ma per una semplice constatazi­one, una mera informazio­ne: al bar si è tutti uguali, si parte tutti dalla stessa linea. Tutti dettagli che fanno la differenza nel mondo. Le saracinesc­he abbassate, le vetrine vuote, i banconi abbandonat­i come rovine di un passaggio imprevedib­ile. Un grido d’allarme da non sottovalut­are. Per ricomincia­re con un rendez-vous, per dirla e cantarla con Paolo Conte de «Gli impermeabi­li».

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