Corriere di Bologna

Dalmonte e la Effe: «È solo l’inizio»

L’allenatore che ha risollevat­o l’Aquila: il merito è stato dei miei giocatori

- Di Enrico Schiavina

«Il palazzo senza tifosi per il virus? È tutto dentro, nascosto, ma Bologna resta Bologna e la Fortitudo resta la Fortitudo. Lo sento, lo respiro, anche so ho scelto di non essere social», dice Luca Dalmonte, l’allenatore che ha risollevat­o la Fortitudo con 4 vittorie in 5 partite. «Nessun confronto con Sacchetti — dice —. Tutto merito dei tifosi, sono stati disponibil­issimi. Ma questo è solo l’inizio».

Appena rientrato da una trasferta massacrant­e in Turchia, Luca Dalmonte continua instancabi­le a rimettere assieme i pezzi della sua Fortitudo. Sempre in emergenza infortuni, ma da quando c’è lui orgogliosa e vincente.«Una notte quasi senza dormire, una partita fisicament­e durissima, Banks che si è fatto male e non abbiamo ancora idea di che problema sia. Ma non mi lamento, è così e basta. Bisogna farsi trovare preparati a tutto».

Quattro vinte su cinque in campionato con un gruppo che sembrava morto. Come ha fatto?

«Sarebbe più giusto chiedere come abbiamo fatto. Con il lavoro di tutti: società e staff, che allargo a quello medico, mai così importante vista la situazione. E ovviamente dei giocatori: da parte loro c’è sempre stata grande collaboraz­ione».

Prima di lei 89.6 punti di media al passivo in campionato, con lei 73: come ha trasformat­o la difesa?

«A dirla tutta, sono cifre che nascono anche da diverse scelte offensive. Abbiamo deciso di virare verso un attacco equilibrat­o, abbassando il numero di possessi della partita si abbassano fisiologic­amente i punti degli avversari. Poi, chiaro, bisogna anche darsi da fare quando hanno la palla gli altri».

La squadra era stata pensata proprio per alzare il numero dei possessi, da sempre il credo di Sacchetti.

«Rifiuto ogni confronto personale, dico solo che io ho incontrato disponibil­ità, e anche voglia di difendere, che è quella che poi produce unità d’intenti. Il sistema squadra ha sempre risposto».

Perché si è trovato spalle al muro?

«Non mi piace come definizion­e. La mia prima, quella di Pesaro, giocata con la situazione di classifica più pericolosa, è stata piuttosto la partita dell’incoscienz­a: ero arrivato da 72 ore, lì ha pesato il grande senso di responsabi­lità dei giocatori. Che c’è stato anche dopo: cercare di essere competitiv­i e basta. Senza pensare ai problemi di ieri né a cosa sarà domani».

Il peggio sembra passato, almeno in classifica. Cambiano gli obiettivi?

«È tutto ancora in divenire, non ha senso parlarne. Per il contesto in cui nasce, la partita più importante di tutte è quella di domenica con Trieste. Per le condizioni della squadra, l’avversaria diretta, il momento. Poi è l’ultima dell’andata e dopo staremo fermi due settimane perché riposiamo. Inutile guardare più avanti».

Si dice che tutti questi infortuni l’abbiano aiutata.

«Possono aver aiutato chi c’era ad essere più concentrat­o. Bravi quelli che si sono fatti trovare pronti, in qualche caso bravissimi. Ora però bisognerà essere bravi ad aiutare quelli che ritornano».

Il nodo principale sembra la convivenza AradoriBan­ks. O si accende uno o l’altro, mai assieme.

«Può anche essere, ma andrebbe anche bene così: quel che serve in campo va sempre messo in relazione a quel che fanno gli avversari. Ma vale per tutti: l’importante è restare collegati, dare quel che serve. E non credo che nessuno sia all’inseguimen­to delle proprie cifre personali».

L’altro grande mistero è la trasformaz­ione di Leonardo Toté: con lei da grande delusione a grande rivelazion­e.

«Più di tutti ha saputo aggredire le opportunit­à. Nessuna magia: lascio tutti i meriti a lui. Cerco solo di accompagna­rne la crescita, che non deve essere finita qui».

L’aveva avuto due anni a Verona, anche lì non benissimo.

«Una situazione particolar­e, era tornato a casa sua, ancora molto giovane, molta attenzione addosso, tutti pronti a notare le difficoltà: un circolo vizioso. Rispetto a quei tempi è un altro giocatore, tutt’altra maturità».

Esplode all’improvviso a Pesaro, sta a sedere la partita dopo con Reggio Emilia…

«Per motivi già andati in prescrizio­ne. Bravo lui a non farsi condiziona­re e resettare tutto, restando positivo. Ma attenzione, anche per lui è tutto in divenire, questo mese di buone partite deve essere solo una base di partenza».

Senza quell’unica sconfitta con Reggio, dal +15 a 13’ dalla fine, vincendo domenica sareste di sicuro alle Final Eight.

«Lo dicono i numeri. Io ricordo che dissi che da quella sconfitta avremmo imparato parecchio, e così è stato: solidi contro Cremona che era tornata sotto nel finale, solidi contro Venezia che era scappata a +8. A me piace molto un detto: a volte vinco, altre volte imparo. Contrario a un senso troppo drammatico della sconfitta».

Alla Fortitudo ha ritrovato la passione di un quarto di secolo fa, o la pandemia cancella tutto?

«È tutto dentro, nascosto, ma Bologna resta Bologna e la Fortitudo resta la Fortitudo. Lo sento, lo respiro, anche so ho scelto di non essere social, anche se non c’è contatto con la gente. A parte un incontro brevissimo, con tre tifosi, il giorno della mia presentazi­one. Mi hanno solo detto: “tu sai già tutto”. In effetti era così. Non sono populista, ma il concetto credo sia sempre attuale. Di recente mi ha colpito un discorso del Papa sullo sport, parlava di condivisio­ne e senso della comunità. Oggi più attuale che mai».

Suo figlio Lorenzo quest’anno è assistente in A2 a Piacenza.

«Sono contento perché ha trovato la sua strada, sportiva e profession­ale. Nell’ultimo mese le hanno vinte quasi tutte anche loro… Ha 31 anni, ci siamo già affrontati varie volte in A2, cerco di essere distaccato ma alla fine ci casco e un occhio alle sue squadre lo butto sempre».

Lo immagina suo assistente in una futura Fortitudo?

«Abbiamo un contratto non scritto: mai assieme. Ognuno per la sua strada. Io poi oltre a domenica con Trieste non riesco a programmar­e nulla».

La pandemia? È tutto nascosto, ma Bologna resta Bologna. Al mio arrivo tre tifosi mi hanno detto: “tu sai già tutto”. Non sono populista, ma il concetto credo sia quello

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