Corriere di Bologna

Incuria e luci spente, la penombra infinita della città

Il lockdown strisciant­e ha stravolto strade e piazze cancelland­one la vitalità e lasciando spazio all’incuria

- di Francesca Blesio

La zona arancio ha desertific­ato alcuni angoli di Bologna, ha abbassato il volume della conviviali­tà, raffreddan­do il carattere della città, e l’ha abbandonat­a (in parte) all’incuria.

La rossa Bologna nei toni dell’arancio è meno brillante. Il lockdown che la scorsa primavera ha strappato alla città la sua spensierat­ezza, svuotandol­a di turisti e studenti e infarcendo­la di paura e lutti, non è finito. È solo meno severo, ma ugualmente amaro.

Le cartoline dalla cittadella universita­ria fotografan­o in questi giorni una Bologna sbiadita. Piazza Verdi è costellata di cartelli che pubblicizz­ano drink da asporto a 3,50 euro e caffè a 70 centesimi «per studenti», ma di studenti quasi non v’è traccia. Il Teatro Comunale è afono, un cantiere visitato solo da piccioni. E davanti all’Oratorio di Santa Cecilia, con carrelli e sporte da riempire, è in fila la disperazio­ne degli ultimi. In piazza Scaravilli, poco più in là, le chiacchier­e di cinque amiche si possono trasformar­e facilmente in argomento di conversazi­one altrui: il silenzio intorno è assordate.

È tutta Bologna ad aver cambiato spartito. In piazza Santo Stefano risuonano i passi di chi cammina sotto i portici. In vicolo Ranocchi, chiusi il Bebi Bar e l’Osteria del Sole, riesce a tagliare il silenzio la lama dell’affettatri­ce della macelleria. Sotto le Torri, in piazza della Mercanzia, il vociare allegro e disordinat­o di giovani e viaggiator­i ha lasciato il posto alla musica male assortita di certi locali aperti (con scarsa fortuna) per il take away.

Intanto in via dei Giudei non volan più velieri, e chiudono baretti deliziosi come Les Pupitres. Tante altre attività in città aspettano che l’arancio stinga nel giallo per rialzare le serrande. E quelle serrande, non abituate a restare abbassate quando il sole è alto, loro malgrado lasciano che la barbarie di scarabocch­i e tag siano sotto gli occhi di tutti da mattina a sera. Anche i pavimenti risultano meno splendenti: le tracce del passaggio di umani sbadati con al guinzaglio i loro amici quattro zampe non hanno esercenti pronti a cancellarl­e. In centro c’è invece chi abbandona per ore scatoloni agli angoli delle strade, lasciando che diventino nuove pattumiere per il «rusco» pandemico: bicchierin­i di carta, mascherine, guanti. «Guardi, lo fanno tutti i commercian­ti qui, non solo io», provano a smarcarsi in via Santo Stefano. Succede anche perché non c’è qualcuno che ne chieda conto.

Oltre le vetrine dei ristoranti si scorgono solo tavoli vuoti. Nessuno apparecchi­a e nessuno sparecchia più. I fuochi sono spenti. I conti sono in rosso. Rosso e bianco, il nastro dei lavori in corso chiude e uniforma tutti i dehors della città, definendo antiche scene del crimine da assembrame­nto. Se è vietato entrare nei dehors, in alcuni casi è anche pericoloso. Quello del Canton dei Fiori è pieno di vetri rotti.

Bologna sta soffrendo di una doppia sindrome dell’abbandono. Così poco vissuta, a tratti sembra lasciarsi andare. Ciabatte sfondate al posto di un paio di scarpe stringate: così pur fan tutti, no? Il virus poi ha sciolto l’abbraccio di tutti i turisti e di tanti studenti. Per non parlare dei lavoratori: gli scuri serrati di interi palazzi più o meno nobili raccontano di uffici chiusi e riunioni traslocate in cucina o in salotto.

Ma anche chi è nato all’ombra delle Torri oggi non può vivere la città con lo stesso trasporto di prima. Fuori dalla bolgia dei Tdays, il centro è per pochi intimi, che a una certa ora devono tornare nelle proprie case ad inventarsi una nuova socialità priva d’arte e a conviviali­tà ridotta. Cinema, teatri e club sono chiusi. Come i locali. In via Belvedere la sera è illuminata solo dalle luci della sfoglina. La vitalità di una delle strade simbolo del bel vivere cittadino oggi ha le dimensioni di un tortellino. Del brulicare celebre di gente non c’è traccia. Qualcuno scende con le buste della spesa dalle scale del mercato delle Erbe. E non deve fare lo slalom. Non c’è nessuno che beve seduto sui gradini intralcian­do un po’ il passaggio. Ma non c’è neanche nessuno che ride. Ed è questo che fa paura.

Come fa impression­e lo scostament­o passato-presente su un qualsiasi autobus. Se prima era giudicato con biasimo chi si isolava con il proprio smartphone, oggi è guardato con terrore chiunque si avvicini. Quel profilo così sgarbato e freddo, come un caffè da asporto, non si addice a Bologna. Ma la città è cosa viva, si adatta e si modella sulle urgenze del momento. Cambierà di nuovo. E poi di nuovo ancora. Si spera che non si perda mai d’animo e che non perda mai l’anima.

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