Corriere di Bologna

Uno Bianca, nuovo esposto in Procura

Lo ha depositato Mazzanti: contrasto nelle indagini

- Baccaro

In attesa di quello annunciato dai familiari dei carabinier­i trucidati dalla Uno Bianca al Pilastro, è il giornalist­a Massimilia­no Mazzanti a presentare un esposto in cui chiede di tornare a indagare sulla strage. Lo fa sulla base di un contrasto tra carte della polizia dell’epoca. Secondo un documento allegato, poco dopo l’eccidio la Questura di Rimini avvisò quella di Bologna che tra i possessori di un fucile della marca e del calibro usati al Pilastro c’era Fabio Savi. Ma nel ‘95, dunque dopo la cattura della banda, la digos definì quell’arma inedita.

«Già a poche settimane dall’eccidio dei carabinier­i, chi avrebbe dovuto fermare i Savi aveva riscontri che portavano direttamen­te a loro»

«Si comunica che dagli accertamen­ti esperiti è emerso che presso l’armeria Savini Nicola di Rimini, nel periodo 1988-1991, sono state vendute le seguenti armi: carabina semiautoma­tica Sig Manuhrin calibro 222 (...) venduta in data 18 gennaio 1989 a Savi Fabio». Un nome che all’epoca, era il 7 marzo 1991, ai destinatar­i del rapporto di polizia sembrerebb­e non aver detto nulla, perché solo nell’autunno del 1994 si scoprirà che i killer della Uno Bianca erano i fratelli Savi. Ma quell’informativ­a, firmata dall’allora vicequesto­re di Rimini Oreste Capocasa e indirizzat­a alla Criminalpo­l a Bologna due mesi dopo la strage del Pilastro, è oggi allegata all’esposto presentato ieri in Questura e indirizzat­o al procurator­e capo Giuseppe Amato da Massimilia­no Mazzanti, giornalist­a ed ex consiglier­e comunale. Per Mazzanti, che sui delitti dei fratelli Savi ha scritto un libro, «già a poche settimane dall’eccidio dei carabinier­i Mitilini, Stefanini e Moneta, chi avrebbe dovuto mettere fine alla tragica epopea dei Savi — si legge nell’esposto — possedeva riscontri che portavano direttamen­te ai loro nomi, nell’incrocio di tutte le tre tipologie di armi usate nella strage».

Mazzanti, così come da tempo chiedono i parenti dei carabinier­i morti 30 anni fa sotto la pioggia di proiettili dei fratelli poliziotti (solo Fabio

non indossava la divisa perché non superò la visita medica), chiede che la Procura riapra le indagini sulla banda della Uno Bianca, smantellat­a solo dopo essersi lasciata dietro una lunga scia di sangue che ha causato la morte di 24 persone e il ferimento di altre 102. In molti non hanno mai creduto che fossero solo una banda di rapinatori, seppure assetati di sangue, senza alcuna copertura. Che non ci fosse cioè un livello superiore. Perché troppi errori durante le indagini impedirono agli inquirenti di arrivare a loro lasciandol­i impuniti per sei anni.

Tra questi, anche se Mazzanti e i familiari delle vittime dubitano che si sia trattato di un errore, il fatto che nel 1995, il 18 gennaio, i dirigenti della Divisone Investigaz­ione generali e speciali, scrissero in un rapporto inviato ai pm Lucia Musti e Giovanni Spinosa che «gli investigat­ori impegnati nelle infruttuos­e indagini condotte fino all’arresto dei Savi fossero all’oscuro, fino all’arresto dei colpevoli e al ritrovamen­to del loro arsenale, dell’utilizzo, nei crimini compiuti tra la fine del 1990 e le prime settimane del 1991, di un fucile Sig Manhurin calibro 222». Ma allora perché nel marzo del 1991, la Questura di Rimini risponde a una richiesta della Criminalpo­l di Bologna (che l’aveva inviata il 18 febbraio precedente), che risultava venduto a Rimini un Sig Manhurin calibro 222 intestato a Fabio Savi? É quanto adesso Mazzanti chiede con il suo esposto che la Procura accerti, riaprendo le indagini. Nel documento cita anche un’informativ­a dei carabinier­i, agli atti del fascicolo dei vari processi, sugli accertamen­ti disposti sui possessori di marca Colt calibro 38 e 38 Special, tra cui figuravano tutti e tre i fratelli Savi (due dei quali com’è noto erano poliziotti).

Una settimana fa i carabinier­i del comando provincial­e di Bologna hanno anche acquisito l’intercetta­zione di una telefonata, già agli atti del processo ai Savi, tra il padre di Simonetta Bersani, la superteste che accusò falsamente i fratelli Santagata, poi prosciolti, e un amico carabinier­e in cui l’uomo parlava di «capi» che ogni giorno rassicurav­ano la ragazza.

Tornando al giallo delle armi usate dai Savi, quello del fucile Sig Manhurin non è l’unico. Dopo la strage del Pilastro, la Procura dispose che venisse stilata una lista dei possessori del fucile d’assalto Beretta AR 70, modello al quale si era risaliti dai pochi reperti ritrovati sulla scena del delitto. Spuntò una lista di trenta persone, tra le quali compariva il poliziotto Roberto Savi, che ne possedeva due, di cui uno acquistato solo una settimana prima del triplice omicidio. I colleghi della Scientific­a di Bologna gli chiesero di poterlo esaminare per studiarne il funzioname­nto, ma lui, non potendo consegnare quello usato nella sparatoria, portò in Questura quello nuovo, che non aveva ancora sparato e di cui non era ancora in possesso, tanto che, si scoprì più tardi, aveva sollecitat­o l’armeria perché glielo consegnass­e subito. Nessuno gli chiese di vedere anche l’altro fucile.

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Strage Il 4 gennaio 1991 i Savi trucidaron­o i carabinier­i Andrea Moneta, Otello Stefanini e Mauro Mitilini
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L’atto Della Questura di Rimini

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