Uno Bianca, «C’è un livello ancora nascosto»
Un livello ancora nascosto sulla Uno Bianca. Ne è convinto l’avvocato Alessandro Gamberini, legale dei familiari delle vittime dei Savi.
«L’esposto? Ben venga, se ci sono nuovi accertamenti non può che farmi piacere. Sono certo che la magistratura lo vaglierà al meglio così come farà con l’esposto che presenteremo noi familiari». Ludovico Mitilini, fratello di Mauro, uno dei tre carabinieri trucidati al Pilastro dai Savi. è tra i primi ad aver auspicato la riapertura delle indagini su quella stagione di terrore e sangue: «Resto convinto che di quella banda facessero parte anche altri».
Nei prossimi giorni intanto potrebbe essere sentito dagli investigatori il giornalista Massimiliano Mazzanti, autore dell’esposto presentato in Questura per chiedere alla Procura di fare luce sul giallo di uno dei fucili usati nell’eccidio dei carabinieri al Pilastro il 4 gennaio del ‘91. Nell’atto s’illumina una anomalia. Il 7 marzo del 1991 la Questura di Rimini su richiesta della Criminalpol di Bologna avanzata il 18 febbraio precedente, spiega che tra i possessori di un Sig Manurhin calibro 222, arma che ha sparato e fatto strage al Pilastro, c’è un tale Fabio Savi. Quattro anni più tardi, il 18 gennaio 1995, quando ormai i Savi sono stati catturati, la digos di Bologna scrive alla Dda per dare seguito
Certo che la magistratura valuterà tutto, è un obbligo morale
alle indagini sviluppate dopo la confessione dei fratelli giustizieri e annota che «le perizie balistiche sulle tre armi di proprietà dei Savi» hanno confermato quanto confessato dagli arrestati e cioè il loro utilizzo nell’eccidio. Subito dopo però nello stesso documento, gli agenti parlano del fucile Sig come di un’arma «finora inedita». Eppure quattro anni prima, quel tipo di fucile fu segnalato a Bologna dalla Questura di Rimini che tra i tre acquirenti conosciuti indicò proprio Fabio Savi.
Ma non è tutto. In un’altra carta trovata da Mazzanti, già autore di un libro sulla Uno Bianca, quello stesso fucile sembra sparire nuovamente. Il 15 febbraio del ‘91 la digos invia alla Procura, e per conoscenza allo Sco di Roma e alla Mobile, un atto contenente i nominativi di 600 persone che presentano determinate caratteristiche (possessori di un’Alfa 33 scura, proprietari di fucili Beretta Ar70 o di proiettili Remington calibro 222 o frequentatori dei poligoni di Loiano e Sassuolo). Tra i nominativi c’è anche quello di Roberto Savi, ma non è questo che conta quanto il fatto che nel documento non si faccia alcun riferimento al fucile Sig nonostante tre giorni dopo, il 18 febbraio ‘91, dalla digos parta una richiesta specifica alla Questura di Rimini in cui si fa espresso riferimento a quell’arma. Non è chiaro se si sia trattato di una svista o di un errore di comunicazione tra uffici della Questura che in teoria avrebbero dovuto condividere informazioni così preziose. O di chissà cos’altro.