La Virtus piange il suo Dado Lombardi
È morto a 79 anni l’ex colonna delle V nere che giocò anche nella Fortitudo
È morto Gianfranco Lombardi, per tutti nel mondo del basket «Dado», uno dei più grandi giocatori italiani degli anni ‘60. Lo piange soprattutto la Virtus di cui è stato una colonna per 14 anni consecutivi, vestì anche la maglia della Fortitudo oltreché della nazionale. Fu apprezzato anche nella sua veste di allenatore, dirigente e commentatore televisivo. Dado Lombardi, che aveva 79 anni, è stato inserito nel 2006 nell’Italia Basket Hall of Fame.
Il grande allenatore era stato preceduto dal grandissimo giocatore, ma nella memoria resta l’enorme personaggio. Con Dado Lombardi, morto ieri dopo una lunga malattia, se ne va un pezzo di storia del basket italiano: mezzo secolo di canestri, pagine epiche scritte prima in Nazionale, poi alla Virtus, quindi in mille altri posti, Fortitudo compresa.Una vita tra i canestri, sempre da protagonista, senza mai perdere né la parlata né lo spirito sanguigno della Livorno in cui era nato nel 1941: il vocione di Lombardi — che tanti nell’ambiente provavano per gioco ad imitare, senza quasi mai riuscirci — rimbomba ancora in mille palazzetti d’Italia, anche se i colori che lui ha più amato restano l’azzurro e il bianconero. Gianfranco all’anagrafe ma «Dado» dal 1959, così ribattezzato all’esordio a 18 anni in Nazionale, alla fine 113 presenze e tre olimpiadi, stella di quella di Roma ’60 che se la giocò contro gli
Usa, segnando il passaggio dall’era delle pallonesse al basket moderno. Alla Virtus 12 stagioni, due volte capocannoniere di A, capitano e uomo simbolo per tutti gli anni 60, oltre che Dado anche «McLombard» perché valeva un americano. Eppure da giocatore ha vestito anche il biancoblù, verso fine carriera, due stagioni in Fortitudo dopo un passaggio, nell’estate del 1970 per 25 milioni di lire, che fece epoca. Salti del fosso ce n’erano già stati altri e molti altri ne seguiranno, ma lui era una bandiera. L’amore per la V nera non l’ha mai nascosto, nei trent’anni di panchine in giro per l’Italia, sempre alla guida di piccole o medie ma mai una grande, sei promozioni, stile inconfondibile, ruspante, catenacciaro come spesso sono gli ex grandi cannonieri. «La Virtus la allenerei anche gratis» disse una volta, ed era un’affermazione forte, per chi lo sapeva molto attento al denaro. Riuscì a tornarci in bianconero, ma solo da general manager, nel 2003 sotto la presidenza Madrigali, non erano più tempi per né per fare bene né per inventarsi un nuovo mestiere. Ha fatto anche il telecronista Rai ma dal grande basket si era ritirato allora, e da una decina d’anni si era trasferito in provincia di Varese, con la moglie Maria Pia, bolognese e virtussina, che se n’è andata nel 2013. Quella che, raccontò lui, si rifiutò di fargli da mangiare la sera in cui tornò a casa dopo un derby vinto, ma giocando per la Effe. Pochi l’hanno segnata come il Dado, la storia del derby: 30 punti nel primo di sempre, trascinando alla vittoria la V nera nel 1966, tre anni dopo è il suo anello (poi nascosto furtivamente nella borsa del massaggiatore), in una mischia a rimbalzo, ad aprire il sopracciglio di Gary Schull e consegnarlo insanguinato all’eternità.