Addio alla documentarista Mangini
Lasciò il suo fondo agli amici della Cineteca. Suo il film sul Pci
Nell’estate del 2019 Cecilia Mangini aveva conquistato la platea di giovani che affollavano il DamsLab per la proiezione del suo documentario Essere donne del 1965. Definito «un piccolo capolavoro» da Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna, che lo aveva inserito nel programma del festival «Il Cinema Ritrovato». «È un lavoro per voi», aveva detto allora alle tante ragazze presenti in quell’occasione. A proposito di un film boicottato come altri della regista «pioniera del reale», scomparsa ieri a 93 anni. Un legame molto forte quello della regista con Bologna e la sua Cineteca, che nella biblioteca ha accolto anche il fondo legato alla sua opera e a quella del compagno, di vita e di lavoro, Lino Del Fra. Il fondo contiene circa un centinaio di soggetti e sceneggiature di corto e lungometraggi realizzati, con altrettanti documenti che testimoniano la preparazione di progetti che non hanno mai visto la luce, blocrio. cati nelle maglie della censura preventiva e sepolti nei locali dell’allora ministero del Turismo e dello Spettacolo che aveva il compito di erogare i finanziamenti per opere di interesse culturale. Era stata sempre lei a lasciare in Cineteca quelle immagini del Congresso socialista di Livorno che nel 1921 aveva sancito la nascita del Pci, che la Cineteca ha restaurato e rimusicato mettendole in questi giorni a disposizione del pubblico in occasione del centena«Cecilia Mangini ricorda la Cineteca sul suo sito - è andata altrove. Ci ripeteva spesso che ‘“il mondo è per chi lo vuole”. Per lei Pier Paolo Pasolini era una persona cara, di famiglia, perché le famiglie non si subiscono, si scelgono. E lei, come il Poeta, aveva scelto di abbracciare il mondo nella sua totalità, amandolo fino in fondo. Odiava “le quote rosa” perché, diceva, l’impegno civile e politico non ha un colore, non ha un genere. Lei che contro ogni previsione di buon senso, in un’Italia piena di pregiudizi, si era fatta spazio con grazia e intelligenza, lei, unica donna in mezzo agli uomini».
La prima che in Italia aveva osato mettersi dietro la macchina da presa per documentare la storia del nostro Paese a partire dal secondo Dopoguerra, incarnando un esempio di cinema militante. Aggettivo che, diceva lei stessa, «sembra quasi una parolaccia». Alla fine degli anni Cinquanta, in un mondo pressoché totalmente presidiato da uomini, il produttore Lucisano le aveva proposto di girare un documentario e lei, in collaborazione con Pasolini, aveva realizzato Ignoti alla città (1958), Stendalì (1960) e La canta delle marane. Dando così voce a chi viveva ai margini, mostrando la desolazione di una campagna devastata dal cemento delle periferie e registrando gli ultimi istanti di vita dei rituali di una cultura contadina spazzata via dall’avvento della civiltà industriale e dei consumi. Un’eredità senza prezzo, quella di Cecilia Mangini, «spogliata da ogni vanità».