Corriere di Bologna

Quello che chiamiamo amore

L’autrice: «Una critica agli stereotipi sui ruoli dell’uomo e della donna»

- Di Massimo Marino © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Quanto può essere esiziale l’amore «normale» di un uomo per una donna? Ettore ama Elisa fin da quando questa è una bimbetta sua dirimpetta­ia, in un quartiere semi-degradato in una provincia del Sud. Da adolescent­e si fidanzerà con lei, la sposerà, avranno due figli. Non le farà mai mancare nulla. Perché allora lei lo lascia, dopo molti anni? Come reagirà lui? Quello che chiamiamo amore è l’opera seconda in uscita oggi per La Nave di Teseo di Loreta Minutilli, nata a Bisceglie nel 1995, nella cinquina dei finalisti al Premio Campiello Giovani 2015 e tra i finalisti del Calvino 2018 con il romanzo Elena di Sparta.

Loreta ora vive a Bologna, dove ha appena finito di stendere una tesi per la laurea magistrale in Astrofisic­a sulle sorgenti dei neutrini.

Che tipo di amore è quello tra Ettore ed Elisa?

«L’idea fondante della storia nasce da una riflession­e sull’idea di amore romantico, come siamo abituati a conoscerlo dai media. Esso può avere un’influenza non positiva sulle vite. Il libro è una sorta di educazione sentimenta­le del protagonis­ta, che vive la sua vita senza domandarsi l’origine dei suoi sentimenti, provandoli perché è scritto che debba andare in quel modo, che ci si debba innamorare, sposarsi, fare dei figli…».

È un amore che corrode?

«È opprimente, e non si rende conto di esserlo. È un amore che non riflette su sé stesso, si dà per scontato».

C’è un giudizio negativo di lei donna e delle donne del romanzo sul protagonis­ta e sull’universo maschile?

«Il mio è un giudizio negativo nei confronti di un certo tipo di educazione che porta i ragazzini a crescere con l’idea di dover essere per forza l’uomo forte, il capofamigl­ia che non può mai sbagliare, che si deve prendere cura di una donna… Questa cultura dominante può creare dinamiche in cui l’uomo stesso è il primo a sentirti ingabbiato».

Figure ingombrant­i sono le madri, che vogliono «riscattars­i» tramite i figli, mentre i padri sono abbastanza assenti.

«Da bambina sentivo discorsi abbastanza goliardici di uomini che si lamentavan­o delle mogli. Temevo di dovermi un giorno sposare con qualcuno che avrebbe pensato queste cose di me. Nella prima versione della storia le madri avevano un ruolo minore: hanno assunto spessore man mano che scrivevo, perché questo è un libro che mi porto dietro da tanto tempo. A poco a poco ho iniziato a vedere queste figure materne

” La scelta Temevo un giorno di dovermi sposare con qualcuno che faceva discorsi goliardici

con più tenerezza, come il prodotto di una vita in cui non ci si può autorealiz­zare, in cui si cerca di recuperare le frustrazio­ni con un controllo sugli altri, sui figli, ossessivo».

È vero che scrive idee per il romanzo tra le formule degli appunti di fisica?

«È capitato. La triste verità è che si passa molto più tempo a scrivere codici al computer che non a scrivere sui quaderni. Sfogliando taccuini su cui annotavo l’andamento della mia tesi, ci sono liste della spesa e momenti in cui scrivevo: “idea geniale, il romanzo continuerà così!”».

Come concilia la narrativa e l’astrofisic­a?

«La scrittura per me è una necessità. Ho sempre avuto però la sensazione, inculcata, che non basti a darmi un posto nel mondo, che non si possa sopravvive­re scrivendo. Poi ho avuto insegnanti che mi hanno trasmesso l’importanza delle materie scientific­he, la sensazione di potercela fare in entrambi i campi e che non fossero necessaria­mente mondi distanti».

Come è capitata a Bologna?

«Per frequentar­e la laurea magistrale in astrofisic­a dovevo scegliere tra Padova e Bologna. Bologna mi è sembrata un posto attraente: c’ero stata qualche volta, mi piaceva molto l’idea di viverci. Mi piacerebbe restarci, magari con un dottorato».

Attraente perché?

«Mi è sembrata un posto a misura di giovani, in cui si potesse vivere bene, vivere la vita della città senza la dispersion­e di una grande metropoli. È una sensazione che provo ancora. Sento che la città ha risorse che non ho ancora scoperto; che ha sempre qualcosa di nuovo da offrire».

Perché sceglie di dare al romanzo un finale aperto?

«Volevo raccontare la complessit­à dei personaggi e delle situazioni che si trovavano a vivere. Perciò ho pensato di lasciare infinite possibilit­à su quello che succede dopo, senza chiudere la vicenda in un modo univoco, che avrebbe potuto risultare stereotipo».

 ??  ?? Al cinema Marcello Mastroiann­i nel film di Mauro Bolognini «Il bell’Antonio» , 1960. L’attore interpreta­va un uomo costretto negli stereotipi
Al cinema Marcello Mastroiann­i nel film di Mauro Bolognini «Il bell’Antonio» , 1960. L’attore interpreta­va un uomo costretto negli stereotipi

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