Bosso un anno dopo
Il volume con gli scritti del musicista morto nel 2020 Le spoglie a Torino. La dedica del teatro è ferma
«Il mio nome è Ezio Bosso, e nella vita faccio la musica. E sono un uomo fortunato». Un anno fa il musicista scompariva a Bologna, per un aggravarsi delle patologie oncologiche che da anni lo affliggevano. Eravamo in pieno lockdown e non fu possibile tributargli il dovuto ricordo. Oggi, grazie all’impegno della famiglia, qualcosa si muove. Soprattutto con la pubblicazione di opere che ne rendono viva la presenza. La frase iniziale apre il libro uscito in questi giorni da Piemme, Faccio musica, una raccolta di suoi scritti, interviste, spunti registrati dal 2017 al 2020, per lo più inediti o in prima versione. Alessia Capelletti, nell’introduzione, chiarisce che si è scelto questo taglio per fornire a chi vorrà studiare Bosso materiale caldo sulla sua operatività e anche per dissipare stereotipi che hanno gravato sulla sua figura.L’idea che si tratti di un libro «serio», lontano dalle fole massmediatiche che hanno perseguitato il maestro, divulgando l’idea superficiale di un mediatore pop della musica classica o di un «personaggio» che doveva il successo alla commozione indotta nel pubblico dalla sua condizione fisica, è rinforzata dalla prefazione di un musicologo come Quirino Principe, che definisce «magica» la bacchetta di «un musicista tanto inusuale e tanto armato di ferri del suo mestiere da fare impallidire molti colleghi carichi di anni e di fama». In quel «tanto armato di ferri del mestiere» c’è un’aperta ribellione alla vulgata che ha perseguitato il direttore d’orchestra, un’affermazione di quella profondità di tutta la sua opera che gli scritti raccolti nel libro testimoniano. Nell‘iniziale bozza di uno scritto per il pubblico tedesco, l’artista ripercorre la sua storia. Nato in un quartiere operaio di Torino nel 1971, il padre non vede bene la sua volontà di fare musica, decisissima fin dall’infanzia, quando dirigeva i dischi: «Il figlio di un operaio fa l’operaio». Bosso racconta la pertinacia nell’imparare a suonare, con la complicità del fratello e di una prozia; la fuga a Vienna a 16 anni; lo studio del contrabbasso ma anche della composizione e della direzione; l’impegno in orchestra; l’abbandono del contrabbasso e le scritture, per
piano, per trii, per quartetti, e di quattro sinfonie; l’impegno come pianista e poi, quando la malattia non gli consente più di affrontare la tastiera, quello esclusivo di direttore, entusiasmante, perché fare musica è suonare insieme. Scorrono le idee: non si deve parlare di «musica classica» ma di «musica libera», che non vuol dire fare quello che si vuole, improvvisare, ma nel suonare eliminare l’ego, i pregiudizi, le manipolazioni, fare qualcosa che per «osmosi libera tutti coloro che partecipano».Assistiamo agli impegni come «direttore ospite», anche a Bologna, che non si concretizzano in realtà in impegni precisi dei teatri; alla creazione della Europe Philharmonic Orchestra, amatissima, con il cruccio di non avere una casa per farla crescere. E scorrono gli autori amati, Beethoven su tutti, approfonditi filologicamente prima di essere affrontati dal podio.La famiglia ha propiziato anche la pubblicazione del cofanetto A Life in Music con 15 registrazioni che ne testimoniano il cammino artistico dal 2004 al 2020. «Presto – ci anticipa il nipote Tommaso – inizieremo e editare le sue composizioni, con due volumi per piano solo». In questo anniversario i familiari hanno voluto la traslazione della salma nel cimitero monumentale della sua Torino. L’Associazione Mozart14, della quale Bosso era testimone e per la quale aveva diretto al Manzoni il concerto dedicato a Claudio Abbado, lo ricorda oggi sulla propria pagina Facebook con un video. A Bologna l’anno scorso si era parlato di intitolargli proprio l’auditorium Manzoni, ma dal Comune al momento non ci sono segnali.