Corriere di Bologna

I FIGLI IMPARANO DAI PADRI

- Vittorio Monti

Quando quelli delle baby gang eravamo noi. Magra consolazio­ne, sostenere che nel giardino di casa, per mutazione genetica, è spuntata una nuova specie: i fiori del male. Com’è vero che nulla si crea e nulla si distrugge. Una volta venivano chiamati monelli, e i peggiori bollati con una parola cancellata: discoli. Che, se acchiappat­i con le mani nel sacco, subivano il marchio di corrigendi. Altro termine fuori uso, anche perché le correzioni sono sempre meno. Finivano al Pratello, carcere giovanile, che non è un bel posto nemmeno oggi. Fa pena tenere in gabbia un leone, rinchiuder­e un ragazzo è contro natura. Quando la gente masticava tanta polenta e poca psicosocio­logia, erano due i sistemi per rimetterli in riga, entrambi istintivi seppure di segno opposto. Se il primo venisse utilizzato ora, arriverebb­ero pietosi carabinier­i mandati contro la crudeltà dei punitori. Fosse invece praticato il secondo, il pelo di molte pecorelle nere diventereb­be bianco, miracolo della terapia antica come il mondo chiamata amore. Senza bisogno di associazio­ni for children, la mamma surrogata si portava a casa, per il pranzo di Natale e feste comandate, un corrigendo con madre biologica assente. Così gli insegnava che la vita può ricomincia­re anche quando è sbocciata male. Di rimbalzo mostrava ai figli che su ogni tavola, per quanto povera, c’è sempre qualcosa da spartire con il prossimo e che l’altruismo sfama più di un pasto da signori.

Idiscoli eravamo noi. Nessuno ci chiamava baby gangster, eppure ne combinavam­o tante, una fortuna non esistesser­o i telefonini. Bulli a nostra insaputa, per lo più senza malvagità. Riti di iniziazion­e, non il modo migliore per cominciare la vita. Come quando all’oratorio i più spavaldi prendevano di mira il grassoccio imbranato per «farlo papa». Non ho mai saputo da dove derivasse la pratica dell’umiliante svestizion­e, nonnismo da caserma. Però sono sicuro che arriva da quella memoria il disgusto per certe sceneggiat­e televisive, quando il famoso attore fa ridere rovistando a mani sfacciate fra le gambe del presentato­re. Si può diventare eroi per caso, ma anche trasformar­si accidental­mente in mostriciat­toli. Quando, per vedere il rischioso effetto che fa, venivano messi i sassi sui binari del treno. Oppure, la testa bendata incollata alla rotaia in gare di coraggio fasullo per stimare ad orecchio l’arrivo della locomotiva e scansarsi in extremis. Sfide alla morte, con i soggetti fragili a rischio. Giochi che in altre forme calamitano anche oggi. Se ci scappa il guaio, dito puntato contro i cattivi maestri dei social. Le risse scoppiavan­o senza etichette glamour, gli interpreti distinti con soprannomi nostrani. I capetti dominavano anche nelle sfide a pallone sul sagrato di Santo Stefano. Il prepotente si sfogava sui più deboli, maschio alfa adorato da fanciulle disinvolte, estasiate nella recita come donna del capo. Prima di seppellire sotto una sentenza tombale il mondo giovane, conviene cercare di capire che è cambiato sì, ma in sincronia con quello adulto. Non sono i ragazzini ad avere infarinato tutti di cocaina. Non hanno fatto solo loro, dei soldi facili, il nuovo idolo. Le gang bonsai copiano quelle grandi, perché da sempre i figli imparano dai padri. Se non ci interroghi­amo sui colpevoli del male giovanile, è per paura della risposta.

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