Corriere di Bologna

Bua in pensione dal «suo» 118: sono stati due anni eccezional­i, spesso ho dormito nel mio studio

«Il Covid ha inciso, siamo diventati i familiari dei malati»

- di Fernando Pellerano

Dottor Vincenzo Bua, una vita nella medicina d’urgenza, dal 2017 come primario del Pronto Soccorso del Maggiore, gli ultimi due anni affrontand­o il Covid, lunedì sarà il suo ultimo giorno di lavoro: che effetto le fa andare in pensione proprio ora?

«Ho solo deciso di rendere più leggera la mia vita. Questi ultimi anni li ho dedicati totalmente a questa struttura, ma ho anche accumulato una buona dose di pressione, inevitabil­e se si dirige un Ps come questo».

La pandemia è stata decisiva?

«Sì, ha favorito la riflession­e decisiva. Ho fatto un bilancio della mia vita, ho fatto una scelta precisa. Ho 64 anni, sarei potuto rimanere fino a 70, ma il 9 marzo ho deciso e non ci ho ripensato. Questi ultimi due anni sono state eccezional­i, scientific­amente e umanamente. Ma anche molto faticose: ho dormito spesso qui in studio».

Ci dica dell’eccezional­ità prodotta dal Covid.

«Il rapporto con i pazienti. Siamo diventati i loro familiari, eravamo il tramite con i loro cari. Emozionant­e. Ci parlavamo tutti bardati, quasi irriconosc­ibili, sorretti dalla voce spesso filtrata. Abbiamo festeggiat­o compleanni, anniversar­i, portato saluti, raccolto messaggi di fine vita, “dica a mia moglie chele voglio bene… Un’esperienza forte».

E poi i parenti.

«Siamo entrati nella loro intimità, assistevam­o alle videochiam­ate, una condivisio­ne totale, dei problemi piccoli e di quelli grossi. Avere toccato e capito la sofferenza, aver aiutato altri per rendere più leggere questa sofferenza a è il bello del nostro lavoro».

E con i colleghi?

«Abbiamo imparato a lavorare insieme, in termini di multidisci­plinarietà e profession­alità, un confronto continuo, giornalier­o. Abbiamo lavorato e mangiato insieme, prima ci conoscevam­o, ora abbiamo una relazione profession­ale. Il Covid ha aperto un nuovo mondo che non finirà, quello che ci ha insegnato non lo dimentiche­remo. In ospedale come fuori».

Qual è ora la situazione? «Non entro nel dibattito vaccinale, non so perché ci sia questa diffidenza verso la scienza, ma è tutto molto evidente nei numeri. Oggi in terapia intensiva ci sono giovani non vaccinati, 50enni senza comorbidit­à. Posso portare solo la mia esperienza: il vaccino ci ha cambiato la vita».

I numeri del personale come sono? Gli operatori si lamentano, scioperano.

«A novembre la Società scientific­a ha lanciato l’allarme al governo sulla criticità del personale d’urgenza: stiamo aspettando una risposta. Programmaz­ione investimen­ti, stipendi, formazione e numero chiuso: empasse. Al Ps del Maggiore il concorso di novembre ha colmato le lacune e siamo a posto».

Lei si è contagiato?

«No, ma molti dei miei 32 medici sì, ma senza conseguenz­e avendo fatto tre vaccini. A Natale ben 8 e così sono tornato in corsia a coprire i turni: di nuovo medico e non direttore, una gioia».

Cosa direbbe a chi vuol fare medicina?

«Che ha il posto garantito, mentre la mia generazion­e è stata precaria e senza lavoro». Cosa farà il 1° febbraio? «Andrò in montagna, a casa in val di Fiemme dove non sono riuscito ad andare a Natale. Essendo un ciappinaro non mi mancano le cose da fare… Non escludo un’esperienza all’estero, dove serve, come medico, in Africa: un pensiero che ho sempre avuto. Mi mancherà questo panorama, San Luca, lo stadio, i tramonti».

Infine il nome, Bua: incredibil­e per un medico, eh?

«Si figuri, sono uscito anche su Striscia la Notizia… “da Bua si curano piccole malattie”. E mia figlia è pediatra…».

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