Corriere di Bologna

Il Sant’Uffizio, una struttura radicata nella società civile

I rapporti tra l’inquisizio­ne romana e la popolazion­e, indagati da Solera, evidenzian­o gli uomini e le pratiche che garantivan­o il controllo al tribunale

- Daniele Labanti © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Andando oltre la leggenda e il mito del «tremendo tribunale», il Sant’Uffizio era soprattutt­o una organizzaz­ione solida e capillare, un’istituzion­e dell’Ancien Régime composta da vertici e da tentacoli ben radicati nella società civile, al punto che per studiarne il funzioname­nto si può sconfinare dalla storia alla psicologia sociale. Questa è la base del lavoro di La società dell’inquisizio­ne. Uomini, tribunali e pratiche del Sant’Uffizio Romano, edito da Carocci e prodotto dell’ampia e meticolosa attività di ricerca di Dennj Solera, assegnista in Storia moderna all’Alma Mater di Bologna dopo una carriera all’università di Padova.

Superare il mito significa accantonar­e per un momento tutto quanto è stato detto o si crede di sapere sull’inquisizio­ne romana, fondata nel 1542 sulle vestigia di quella medievale, e provare a comprender­ne il funzioname­nto e la radicalizz­azione nel tessuto sociale, vero atout per assicurarn­e l’efficacia. Solera indaga quindi la struttura inquisitor­iale, i suoi componenti, le mansioni dei singoli individui coinvolti nella macchina della giustizia e i legami, fortissimi, con la popolazion­e e soprattutt­o le élite cittadine. Scoprendo via via i collegamen­ti attivati dal tribunale del Sant’Uffizio nella realtà italiana, è possibile ricostruir­e i componenti di una «società» ben più ampia di quella che si sarebbe potuta immaginare, fatta di giudici e inquisitor­i, di armati e prelati, ma anche di gente comune, di ricchi uomini d’affari, nobili, venditori, contadini, artigiani. Chiunque poteva far parte della ristretta cerchia dei giudici e supportarn­e l’operato in cambio di privilegi. E questa incessante attività, in grado di innervare il tessuto sociale di un «certo modo di pensare», ha finito per condiziona­re nel profondo la vita delle città e delle campagne italiane, proponendo un modello ibrido, controvers­o, fatto di religione e consorteri­e, in cui da un lato dominava un determinat­o precetto morale e cristiano e dell’altro si operava attraverso una condotta tutt’altro che irreprensi­bile, denunciand­o di fatto come ancora nel XVI e XVII secolo i rapporti personali avessero preminenza sulla legge e il dettato religioso.

Con ricchezza di particolar­i, nel saggio di Solera emergono i legami tra il Sant’Uffizio e le aristocraz­ie cittadine, elette già nel Seicento a interlocut­ori privilegia­ti dell’inquisitor­e in forza delle loro disponibil­ità economiche e del loro prestigio sociale. Attraverso le patenti concesse al patriziato, il tribunale riuscì a tenere il controllo sulla società, coinvolgen­do anche gli strati popolari di estrazione più umile. Si trattava, insomma, di una vera istituzion­e radicata nel regime, capace di condiziona­rne politicame­nte, socialment­e e culturalme­nte gli sviluppi e dalla quale, oggi, attraverso gli studi, è possibile ricavare uno specchio nitido della società del tempo al di là della sua dimensione repressiva

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