Il ricordo vivo degli sfollati e gli anni lontani da casa «Non si può dimenticare»
Le storie di Grazia e di Mariarosa, la paura del futuro e la speranza: «Senza casa solo per 4 anni, nella mia Irpinia sarebbe stato impossibile». E poi Luciano, ancora fuori dalla villa storica
È tutto dentro una scatola: le foto, gli articoli di giornale. «Non la apro da tanto» dice commossa Grazia Manzo, 63enne di Rovereto di Novi, uno dei comuni della Bassa modenese più colpito dal terremoto del 2012. Grazia, col marito e al cane Roger, è stata sfollata per 4 anni prima di poter tornare nella casa poi ricostruita con i contributi dello Stato. La mattina del 29 maggio 2012 alle ore 9 la palazzina si è aperta in due come una scatoletta per poi accartocciarsi su un fianco. «In quel momento ero in un bar del centro – ricorda - a Rovereto non eravamo spaventati perché la scossa del 20 maggio aveva colnumenti, pito altri paesi vicini» Nessuno si aspettava che a distanza di nove giorni il terremoto si sarebbe abbattuto ancora con tale forza. «Ho sentito un boato, nel bar crollava tutto, fuori l’asfalto faceva le onde e sentivo lo stesso odore di gomma bruciata che mi ricordava il terremoto del mio paese in Irpinia. Ho ancora quell’odore nelle narici».
In piazza si scatenò il panico, le persone correvano e cercavano di telefonare ma le linee erano bloccate. «Ho accompagnato una mamma all’asilo per vedere se i bimbi stavano bene, poi con mio marito siamo andati da mio figlio a Carpi, per fortuna era tutto a posto. Stavamo tornando per vedere la casa quando c’è stata l’altra scossa (alle 12.56, ndr) la macchina si sollevava, ho detto a mio marito “stavolta è la fine”. Eravamo vicino al santuario, ci ha salvato la Madonna di Ponticelli». La palazzina era distrutta, rivederne le foto fa ancora male. «Il nostro cane era dentro, siamo entrati piano nel cortile e siamo riusciti a tirarlo fuori, era tutto insanguinato». I giorni seguenti li hanno trascorsi in una tenda in un parco, come migliaia di altri sfollati prima di trovare una sistemazione da parenti, amici o nei campi della Protezione civile. «Non volevamo allontanarci perché c’erano persone che venivano a rubare tra le macerie, con i vicini facevamo le ronde a turno anche di notte». Poi un piccolo appartamento in affitto pagato con i contributi che arrivavano dallo Stato, il famoso Cas che tutti hanno imparato a conoscere. «Quattro anni, in fondo ci è andata bene — dice Grazia — se penso all’Irpinia, ma qua siamo in Emilia».
A distanza di 10 anni il 95% del patrimonio crollato o inagibile nei 59 comuni del cratere è stato ricostruito ma in quel 5% che manca, oltre a chiese e moci sono ancora case storiche imbrigliate nelle transenne. Una di queste è campagne di Novi di Modena, una villa degli anni Trenta le cui prime fondamenta risalgono al 1500. Era la casa di una famiglia di agricoltori, da dieci anni vivono tutti e quattro – due genitori ottantenni e due figli – in una costruzione in muratura di 70 metri quadrati che hanno messo su coi loro risparmi di fronte alla villa. «Il problema è la burocrazia, sapevamo che la nostra casa sarebbe stata una delle ultime ad essere ricostruita ma non riusciamo a venirne fuori» dice il signor Luciano, 88 anni. «I lavori sono cominciati solo due anni fa e ora non vanno avanti…. prima il Covid, poi la guerra….ora i problemi comuni a tutto il settore edile. Non so neanche più di chi sono le colpe, di tutti e di nessuno». Svegliarsi e avere davanti agli occhi la propria casa in macerie è un colpo al cuore. «Tutta la mia famiglia ha vissuto qui, spero solo di poterci tornare prima di morire».
C’è anche chi riesce a ricordare aspetti positivi. «Con il terremoto ho imparato cosa vuol dire la parola abbraccio», dice Mariarosa Bellodi, fotografa, un negozio nel centro di San Felice sul Panaro. «Il negozio che avevo in affitto è crollato, così mi sono spostata in un gazebo nel parcheggio di un supermercato e ho lavorato sotto la tenda. Ho dormito in auto per due mesi e lavoravo, facevo fototessere perché tanti ne avevano bisogno per rifare i documenti persi nei crolli. Avevo allestito un set di fortuna. Il venerdì sera con un’amica preparavo l’aperitivo per i pompieri che cambiavano turno, sono stati momenti belli. Ho sentito che dovevo aiutare il centro storico che per anni mi aveva dato da mangiare». La casa di Mariarosa non ha subito gravi danni e dopo il periodo in auto e in una casa di legno, è riuscita a rientrare a casa. Le notti nella tenda sono un ricordo comune a molti, anche chi aveva la casa agibile non aveva il coraggio di tornare. Nei parchi spuntavano decine di tende e fili per asciugare i vestiti. «Ho dormito in una tenda nel giardino di mio fratello con tutta la famiglia ricorda Massimo Gennari di Cavezzo, pesantemente colpito dalla scossa del 29 maggio. «E’ stato come vivere in un film, dopo un mese ci hanno dato l’agibilità ma avevo paura: dormivo vestito, pronto a scappare. Mi addormentavo solo quando sentivo le scosse di assestamento: come se la terra mi desse la buona notte».