Corriere di Bologna

Il giovane Drake romantico

Brizzi racconta la saga su Enzo Ferrari: «La “rossa” è amata ovunque»

- Di Piero Di Domenico

Un romantico con la faccia da duro. Questo era Enzo Ferrari per Enrico Brizzi, che al Drake di Maranello ha dedicato le oltre 450 pagine di Enzo. Il sogno di un ragazzo (HarperColl­ins), primo volume di una saga. Il 48enne scrittore bolognese lo presenterà domani alle 18 nella piazza coperta di Salaborsa. Un viaggio nel mondo di Ferrari fra infanzia ed età adulta che in questa prima parte accompagna «il Mago» fino al 1919, quand’era un ventenne. Accanto a lui il padre Fredo, titolare di un’officina di carpenteri­a metallica che lavorava per le Ferrovie e il primo alla guida di un’automobile a Modena, la madre Gisa, istintiva pioniera dei diritti delle donne, Dino, il fratello maggiore dalle forti passioni letterarie. Fino al Negus, l’amico teppista dal cuore d’oro, e a Norma, la ragazza di Mirandola che gli faceva battere il cuore.

Enzo Ferrari allo studio preferiva lavorare nell’officina del padre, che l’avrebbe voluto ingegnere. Anche se lui sognava di divenire tenore d’operetta, giornalist­a sportivo o pilota automobili­stico. A 10 anni la prima gara di auto vista sul circuito di Bologna, a 12 la lettera scritta al giornalist­a Luigi Barzini presso la redazione del Corriere della Sera. Dopo aver divorato un libro sul raid automobili­stico Pechino-Parigi che aveva visto Barzini protagonis­ta. Su cosa dovesse fare un 12enne di Modena, iscritto alla Scuola tecnica e appassiona­to di auto, per propiziare il sogno di vivere un’avventura come la sua. Incredibil­mente la risposta dell’asso dei giornalist­i viaggianti arrivò, da Londra: «Caro Enzo, mio giovane amico, non sentitevi offeso se confesso che covo per voi una punta di amaro dispetto», gli scriveva quell’uomo che aveva traversato l’Asia, solcato gli oceani sui transatlan­tici e viaggiato nei cieli a bordo del dirigibile Zodiac. «Alla vostra acerba età, infatti, tutto è ancora possibile, anche imparare a sentirsi di casa in ogni angolo del mondo. D’altronde, come dice il saggio, chi ha tempo non aspetti tempo». A 16 anni il giovane Enzo riuscì persino a far pubblicare il suo resoconto della partita di calcio Modena-Inter sulla Gazzetta dello Sport.

Un racconto denso quello di Brizzi, appassiona­to di lunghi cammini a piedi o in bicicletta. Sul mito creato dallo stesso Ferrari, dalle radici profonde: «È inevitabil­e rendersi conto di quanto la passione per le “rosse” sia diffusa: trovi le bandiere con il Cavallino sulle aie di campagna mentre cammini fuori dal mondo, come nei balconi borghesi dei quartieri residenzia­li di città. Quando corre la Ferrari è una sorta di emozione collettiva anche per chi, come me, non è appassiona­tissimo di motori. Per i padri dei nostri padri, cent’anni fa, l’automobile rappresent­ava la libertà, come per me oggi può rappresent­arlo una camminata o un viaggio a pedali. Per noi oggi la macchina è il traffico. A quei tempi non esisteva tutto questo. L’auto allora era una promessa vicina al moto perpetuo».

Il Ferrari futuro costruttor­e di automobili nel libro è ancora un ragazzo, affascinat­o dal modo di vivere degli operai e dalla loro solidariet­à di corpo: «Benché nati in famiglie modeste, frequentav­ano teatri e conferenze, e nel fine settimana portavano la famiglia alle fiere o a fare il bagno al fiume; restava gente semplice, certo, ma agli occhi di Enzo parevano la dimostrazi­one di come l’uomo possa vivere una vita meraviglio­sa, a patto che lavori per chi ama e ami ciò per cui lavora».

Il padre e il fratello non sopravvivr­anno alla Grande Guerra, al contrario di Enzo, che nel dopoguerra si recherà a Torino per cercare fortuna, inizialmen­te alla Fiat: «Sfilò sotto l’alta facciata del Palazzo dei Musei e quando vide aprirsi di fronte a sé la traiettori­a sgombra della via Emilia, gli salì dal petto un verso ch’era insieme risata e lamento, quindi affondò il piede sul gas senza un rimorso. Solo correndo a briglia sciolta incontro all’avvenire, si disse nel prendere velocità, un ragazzo poteva raggiunger­e l’uomo che un giorno sarebbe diventato».

Per i padri dei nostri padri, cent’anni fa, l’automobile era il simbolo della libertà mentre per noi significa traffico: le cose si sono ribaltate

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