SANREMO E LE NOSTRE STORIE
Sanremo fra noi. Musica dal Festival, voci nella città. Girando dentro e fuori i portici, lungo le strade e nelle piazze. Fra parole canore e vita reale. Comunque, per pensarci sopra. Per non essere schiavi dell’effimero. «Sarà che questa vita/ non la prendo mai sul serio/ e che magari un giorno me ne pento/ ma ora no», canta Alessandra Amoroso. Sarebbe meglio darsi una regolata, la vita sregolata ha tracimato, inutili le lacrime di coccodrillo a posteriori, sono capaci tutti di furbeschi pentimenti per incassare attenuanti. Vale nei processi come nei post: davanti al danno compiuto, le solite scuse di comodo servite con il classico non volevo. Colpa anche del cellulare, che arriviamo a usarlo come un lanciafiamme, per poi trovarci con il cerino fra le dita. In «Casa mia», Ghali ci ricorda l’eccesso che non dovremmo mai dimenticare: «Non mi dire che ho fatto tardi/ siamo tutti zombi col telefono in mano». Le nostre stanze sono diventate il teatro dell’overdose da social. Ma anche dell’indigestione televisiva, che all’indomani pittura le facce di occhiaie. Si sta svegli per non voler pensare e si dorme quando si dovrebbe pensare. È sempre più raro che i discorsi seri sconfiggano le chiacchiere. Perfino le emozioni profonde, su vita e morte, diventano superficiali se poi andranno in tour, reclamizzato dall’effetto trailer. Nottetempo, perfino negli angoli dove la nostra città è più scura, basta non chiudere gli occhi per riuscire a vedere l’esistenza dei senza tetto e dei senza affetto.
Big Mama, in «La rabbia non ti basta», diffonde anche un rimpianto: «È il buio che ti mangia e non ti fa dormire/ se potessi andare indietro ti darei una casa vera in cui dormire». È proprio impossibile provvedere subito? Perché tenersi il senso di colpa, causato dal non aver fatto quanto serviva per togliere dalla strada chi possiede soltanto la strada? Se le parole non si fermano alle orecchie ma arrivano al cuore, quando incontriamo sotto i portici un uomo sdraiato per terra, dovremmo sentirci anche noi stesi su quel selciato. Più dei sermoni e dei post acchiappa elettori (ma ci riescono davvero?) conviene sperare nelle parole d’artista, che volano per il mondo senza pretendere di fare storia, forse proprio per questo ci riusciranno.
Preziose soprattutto se ammoniscono contro l’uso scriteriato del parlare e scrivere. In «Diamanti grezzi», Clara avverte: «Non sappiamo ancora/ fare a meno di parole che quando si schiantano lasciano il segno». Inevitabile pensare a quelle buttate contro Liliana Segre dalla frenesia cieca dei post, e alle tante altre pietre di bullismo, ferocia degli uni contro gli altri a tempo pieno, perché la guerra tra odiatori non ha limiti. Volendo è possibile cogliere un rimando a Città 30, nelle parole che si schiantano perché «corrono sopra i 300/ in mezzo alle strade del centro». La meraviglia dell’arte è in una valenza che va oltre le intenzioni, fino a diventare lettura proficua contro la strage delle donne, che davvero troppo abita anche fra noi. La Sad ci sferza: «Con una mano mi abbracci e con l’altra mi ammazzi». Nessun psicologo potrà fotografare meglio l’animo nero di chi uccide: «Affogo in una lacrima perché il mio destino è autodistruttivo/ e prendo a pugni lo specchio io non ci riesco a cambiare chi vedo riflesso». Le parole di Sanremo, però sanno diventare fiori. Dopo la fuga dal turismo di massa, proposta dai Negramaro con «Andiamo ovunque basta che sia lontano dalla gente», a consolarci arriva l’ottimismo evergreen dei Ricchi e Poveri: «Che confusione il sabato/ È quasi peggio di quello che dicono, con te però/ c’è un non so che di magico». Anche nei T Days.