Il re che sedusse Bologna
Ricci presenta all’Alliance Française il suo «Rinascimento conteso» (Mulino) Nel 1515 Francesco I incontrò Leone X: la sua immagine colpì le corti italiane
«La cera è bellissima, lo naso lunghetto, la bocca parla e ride, in somma est facies digna imperio, è grande più de la comune statura, è tutto pieno di forza e vigoria». L’autore della descrizione è il vescovo Paolo Giovio, il soggetto è Francesco I re di Francia, arrivato nel dicembre 1515 a Bologna per un incontro che oggi definiremmo «storico» con il papa Leone X. Frasi riprese da Giovanni Ricci nel suo Rinascimento conteso (Il Mulino), nel quale lo storico indaga la complessità dei rapporti fra Italia e Francia fra la fine del Quattrocento e la metà del Cinquecento: l’epoca delle «guerre horrende d’Italia», per citare Niccolò Machiavelli, caratterizzate dall’invasione di Carlo VIII nel 1494 e il successivo sfaldarsi di quei fragilissimi equilibri che tenevano in piedi la politica della Penisola, implosi al primo concreto tentativo di metterne alla prova l’efficacia.
Francesco I, dicevamo. Giovio prosegue, aggiungendo che era «bianco come il latte» e «bellissimo sopra quanti erano quivi all’hora di quella età». Un re dunque affascinante, che colpiva per la sua grazia e per l’esuberanza con la quale si esibiva in battaglia, nelle cene, nei giochi con i suoi cortigiani.
Anche Bologna ne fu sedotta, ma qui è opportuno fare un passo indietro. Prima di quel dicembre 1515, Francesco era stato il trionfatore di Marignano, la battaglia nella quale i francesi sbaragliarono l’esercito degli Sforza e dei (fino a quel momento) invincibili picchieri svizzeri, mettendo fine al loro dominio su Milano. Facile immaginare cosa dovettero pensare le altre città italiane, se così malamente era finita l’armata della città più dotata dal punto di vista militare. Si organizzò dunque il primo incontro fra il papa Giovanni de’ Medici e il sovrano francese: un complesso affare diplomatico che alla fine premiò Bologna, ammesso che di premio si possa parlare perché ovviamente un simile impegno portava con sé costi, oneri organizzativi, la necessità di reperire alloggi per i dignitari e i soldati, la costante esigenza di cibo per truppe e animali, oltre agli svaghi.
Bologna fu scelta dopo vari intrighi diplomatici, come spiega Noemi Rubello nella sua tesi di dottorato «Il re, il papa, la città. Francesco I e Leone X a Bologna nel dicembre 1515» curata proprio con Giovanni
Prima dell’incoronazione di Carlo V del 1530, la città fu già teatro di un grande summit politico organizzato da un pontefice
Ricci. Quindici anni prima dell’incoronazione di Carlo V, dunque, Bologna fu già protagonista di un grande summit internazionale pianificato in quella che poi sarà una «seconda capitale» dello Stato pontificio. Da un lato il papa, che secondo le fonti non fece un ingresso propriamente «trionfale», approfittò per sistemare la situazione interna alla città, ancora invischiata nel complesso dopo-Bentivoglio, dall’altro Francesco iniziò a mettere a frutto la propria politica costruita anche sulla sua bellezza fisica.
Anche le famiglie dell’oligarchia bolognese ne rimasero stregate, in una sorta di dialogo a distanza con quel re Enzo duecentesco che affascinò al punto da creare un suo personale mito cittadino, per quanto poi inesorabilmente sfumato dalla storiografia più recente. In piazza Maggiore, parallelamente al convegno, si organizzò la consueta cerimonia del tocco delle scrofole, altra tradizione che accompagnava i re di Francia tanto magistralmente raccontata da Marc Bloch ne I re taumaturghi. Mentre il sovrano si esibiva davanti al Palazzo comunale, il suo splendore fioriva solleticando l’immaginazione popolare, specialmente se messo al confronto con l’opinione che le corti italiane avevano dei francesi, considerati sporchi, abituati a cattive maniere e a vivere trattando le bellissime suppellettili dei nostri palazzi «come se si fosse in un porcile». Addirittura in Puglia, sconvolta nel 1480 dall’eccidio di Otranto per mano di Gedik Ahmet Pascià, si diceva che era meglio avere in casa i turchi piuttosto che i francesi, «gente poltronissima, sporca et dissoluta» per utilizzare le parole riportate dal mercante veneziano Giovanni Bragadin.
Nel saggio, che scorre lineare e godibile, Ricci sintetizza bene questi temi, quindi non solo politici, nel rapporto tra Francia e Italia nel Rinascimento. Un’epoca che si chiuse nel 1559 con i funerali di Ercole II d’Este, nella più francofila delle corti italiane, quando ormai gli accordi di Cateau-Cambrésis avevano reso spagnola la nostra Penisola.