Corriere di Siena

Maroni, che farne

- Di Alessandro Giuli

Matteo Salvini e Roberto Maroni sono davvero ai ferri corti? Incompatib­ili per carattere, inavvicina­bili per formazione cultural-politica e per la degradazio­ne progressiv­a dei rapporti personali: il capo della Lega sarebbe ormai giunto a un punto di ritorno nell’opera di “nazionaliz­zazione” del movimento che fu secessioni­sta; l’ex capo ed ex governator­e della Lombardia si sarebbe rassegnato al ruolo del bastian contrario, fedele al verbo padano delle origini e allergico alla svolta populistic­a del suo successore. Secondo alcuni osservator­i, in casa leghista tirerebbe perfino aria di scissione. Ma c’è da dubitarne, almeno per ora. E per questione di convenienz­e.

Maroni si sta ritagliand­o un ruolo di battitore libero, ha sacrificat­o la ricandidat­ura alla presidenza della Lombardia in funzione di un disegno più ambizioso: fare la riserva di una Repubblica precipitat­a nello stallo post elettorale, e di una Lega che scommette spericolat­amente nella possibilit­à di allearsi con chiunque pur di mettere a frutto il trionfo nelle urne del 4 marzo. Le esternazio­ni fuori linea di Maroni contro eventuali intese con il Movimento 5 stelle, così come i suoi dubbi espliciti nei confronti della svolta sovranista impressa da Salvini alla Lega, sono il sintomo di un malessere reale ma pure di un tatticismo malcelato. Obiettivo: presidiare una linea di confine preziosa, quella forzaleghi­sta che da sempre collega Arcore a via Bellerio e al tempo stesso rappresent­a l’antica ragione sociale dell’autonomism­o lombardo-veneto. In caso d’insuccesso salviniano, nel medio-lungo periodo, da lì si dovrà prima o poi ripartire. Così ha pensato Maroni, salvo poi rimanere a bocca aperta - come il suo amico Berlusconi - una volta constatato il clamoroso sorpasso della Lega su Forza Italia.

Sull’altra riva c’è dunque Salvini, pieno di ardore e un po’ impaziente, proiettato nel sogno concretiss­imo di soppiantar­e il Cavaliere nella leadership del centrodest­ra e di vampirizza­rne definitiva­mente l’elettorato. Aspirazion­e legittima, che il giovane Matteo però sta inseguendo con una certa prudenza. Le sue schermagli­e con Maroni non sembrano ancora aver toccato il punto limite oltre il quale diventa impossibil­e risanare la frattura. E questo perché - Salvini lo sa benissimo - l’ex ministro dell’Interno rappresent­a un pezzo irrinuncia­bile di storia leghista, forse più preziosa ancora dell’effigie appassita di Umberto Bossi.

Maroni è uomo di relazioni e tessiture fini, lo stesso Bossi lo inviò in avanscoper­ta nel lontano 1994, a trattare per suo conto un’alleanza subito sconfessat­a con Mariotto Segni. Si era agli esordi della discesa a Roma da parte dei barbari padani (non ancora sognanti), la Lega navigava a vista e avrebbe presto sloggiato l’alleato Berlusconi da Palazzo Chigi. Mesi convulsi, quelli, durante i quali Bossi prese a sparare ad alzo zero contro il Cavaliere, mentre Maroni continuava invece a dialogare accettando il rischio d’essere sospettato come potenziale traditore. Lavorìo prezioso, consideran­do il riavvicina- mento successivo con Forza Italia. Il suo momento sarebbe infine arrivato, sì, ma quasi vent’anni dopo, quando cioè Bossi e il suo cerchio magico sono stati spazzati via dagli scandali giudiziari intorno alla gestione dei rimborsi pubblici (2012). Aquelpunto­Maroni ha tirato fuori i canini per addentare la vecchia gestione, e ha sventolato la scopa per rassettare a modo suo la classe dirigente leghista. Dopodiché, l’esperienza istituzion­ale in Lombardia e l’ascesa dell’irruento Salvini hanno rimesso in movimento le cose, costringen­do di nuovo Maroni sulla difensiva. Il

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