Maroni, che farne
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Matteo Salvini e Roberto Maroni sono davvero ai ferri corti? Incompatibili per carattere, inavvicinabili per formazione cultural-politica e per la degradazione progressiva dei rapporti personali: il capo della Lega sarebbe ormai giunto a un punto di ritorno nell’opera di “nazionalizzazione” del movimento che fu secessionista; l’ex capo ed ex governatore della Lombardia si sarebbe rassegnato al ruolo del bastian contrario, fedele al verbo padano delle origini e allergico alla svolta populistica del suo successore. Secondo alcuni osservatori, in casa leghista tirerebbe perfino aria di scissione. Ma c’è da dubitarne, almeno per ora. E per questione di convenienze.
Maroni si sta ritagliando un ruolo di battitore libero, ha sacrificato la ricandidatura alla presidenza della Lombardia in funzione di un disegno più ambizioso: fare la riserva di una Repubblica precipitata nello stallo post elettorale, e di una Lega che scommette spericolatamente nella possibilità di allearsi con chiunque pur di mettere a frutto il trionfo nelle urne del 4 marzo. Le esternazioni fuori linea di Maroni contro eventuali intese con il Movimento 5 stelle, così come i suoi dubbi espliciti nei confronti della svolta sovranista impressa da Salvini alla Lega, sono il sintomo di un malessere reale ma pure di un tatticismo malcelato. Obiettivo: presidiare una linea di confine preziosa, quella forzaleghista che da sempre collega Arcore a via Bellerio e al tempo stesso rappresenta l’antica ragione sociale dell’autonomismo lombardo-veneto. In caso d’insuccesso salviniano, nel medio-lungo periodo, da lì si dovrà prima o poi ripartire. Così ha pensato Maroni, salvo poi rimanere a bocca aperta - come il suo amico Berlusconi - una volta constatato il clamoroso sorpasso della Lega su Forza Italia.
Sull’altra riva c’è dunque Salvini, pieno di ardore e un po’ impaziente, proiettato nel sogno concretissimo di soppiantare il Cavaliere nella leadership del centrodestra e di vampirizzarne definitivamente l’elettorato. Aspirazione legittima, che il giovane Matteo però sta inseguendo con una certa prudenza. Le sue schermaglie con Maroni non sembrano ancora aver toccato il punto limite oltre il quale diventa impossibile risanare la frattura. E questo perché - Salvini lo sa benissimo - l’ex ministro dell’Interno rappresenta un pezzo irrinunciabile di storia leghista, forse più preziosa ancora dell’effigie appassita di Umberto Bossi.
Maroni è uomo di relazioni e tessiture fini, lo stesso Bossi lo inviò in avanscoperta nel lontano 1994, a trattare per suo conto un’alleanza subito sconfessata con Mariotto Segni. Si era agli esordi della discesa a Roma da parte dei barbari padani (non ancora sognanti), la Lega navigava a vista e avrebbe presto sloggiato l’alleato Berlusconi da Palazzo Chigi. Mesi convulsi, quelli, durante i quali Bossi prese a sparare ad alzo zero contro il Cavaliere, mentre Maroni continuava invece a dialogare accettando il rischio d’essere sospettato come potenziale traditore. Lavorìo prezioso, considerando il riavvicina- mento successivo con Forza Italia. Il suo momento sarebbe infine arrivato, sì, ma quasi vent’anni dopo, quando cioè Bossi e il suo cerchio magico sono stati spazzati via dagli scandali giudiziari intorno alla gestione dei rimborsi pubblici (2012). AquelpuntoMaroni ha tirato fuori i canini per addentare la vecchia gestione, e ha sventolato la scopa per rassettare a modo suo la classe dirigente leghista. Dopodiché, l’esperienza istituzionale in Lombardia e l’ascesa dell’irruento Salvini hanno rimesso in movimento le cose, costringendo di nuovo Maroni sulla difensiva. Il