Due polli, ma di forno ce n’è solo uno
▸ Luigi Di Maio dovrebbe sapere che a forza di trafficare con i forni rischia di finire rosolato come un pollo. Dicono che il capo dei Cinque Stelle, di forni a disposizione, ne avrebbe due come la vecchia Dc: a destra la Lega di Matteo Salvini, con il quale un fidanzamento per scegliere i presidenti delle Camere è riuscito alla perfezione, ma lo sposalizio per allestire un governo comune s’è incagliato sulle pretese da maschio alfa del ragazzotto pentastellato; a sinistra c’è il Partito democratico che si regge col nastro adesivo renziano ed è affollato da dirigenti che vorrebbero partecipare al grande gioco della maggioranza in gestazione. Di Maio preferisce trescare con Salvini, col quale s’è instaurato un rapporto di simpatia canagliesca, ma non ha rinunciato al sogno di strappare a Renzi (e a Berlusconi) qualche manipolo di parlamentari per ingrassare il bottino che nei suoi pensieri lo sospingerebbe a Palazzo Chigi.
La realtà dice un’altra cosa: sulla parte più rilevante del Pd e dei gruppi parlamentari comanda ancora l’indisponibile Renzi; la sinistra del partito insieme con le frattaglie di Leu, numeri alla mano, basta a mala pena per apparecchiare una tavolata pasquale. Paziente ma non scemo, il capotribù leghista oppone la volontà di non perdersi per strada il resto del centrodestra e ostenta una sana diffidenza nei confronti della sinistra balcanizzata.
Sarebbero questi i due forni? Balle. La logica dei due forni funziona se sei la Democrazia cristiana, se occupi il centro del palcoscenico politico in un regime proporzionale ma bloccato dalla cortina di ferro, con gli Stati Uniti che ti fanno governare a prescindere e alleandoti di volta in volta con una sinistra moderata (all’epoca il Psi) o con una semi destra (i liberali o frattaglie missine…). Insomma tutto un altro mondo, retto dalla necessità di uno Stato a sovranità limitata, obbligato a escludere il Partito comunista dal governo centrale e, al tempo stesso, a dividersi con esso l’amministrazione degli enti locali. Se proprio volessimo almanaccare con i precedenti storici, in questa meccanica il Movimento 5 Stelle rassomiglia più a un Pci scolorito e che forse ce l’ha fatta. In poche parole, Di Maio deve ancora conquistarselo Palazzo Chigi, e zitto zitto sta facendo qualunque mossa per accreditarsi in America e in Europa, coi banchieri e le così dette élite. La Lega gli offre la possibilità di essere costituzionalizzato in un esecutivo guidato da una figura terza e puntellato a distanza dal Cavaliere e da Giorgia Meloni: è l’unico disegno certo in termini numerici, la sola proposta che il Quirinale non potrebbe rifiutare. E ciononostante Di Maio esita, poiché teme di spaventare i suoi elettori massimalisti e preferisce non legarsi le mani con un’opzione unica davanti a Sergio Mattarella. Troppo furbo o anche un po’ pollo? A meno che ma ne dubito - non si tratti d’un gioco delle parti scritto dietro le quinte dai plenipotenziari leghisti e pentastellati, con l’obiettivo di sondare passo passo le reazioni interne e le riposte esterne, il rischio di tanta irresolutezza è quello di rianimare le vecchie volpi azzoppate dalle urne, i teorici dei governissimi a basso tasso politico e alta vocazione tecnocratica, in altri termini il vetusto partito di Napolitano. A forza di traccheggiare, a forza di negare con se stessi e di fronte agli altri il sopraggiunto ingresso dei Cinque Stelle nell’età adulta della politica, ovvero la stagione delle responsabilità e delle alleanze che dissolvono la pretesa di purezza delle origini, Di Maio rischia di fare una brutta fine. La sua missione sta nel condurre quanto prima i Cinque Stelle al governo, la via maestra a quanto pare procede in salita ma è sgombera da ostacoli invalidanti. Ed è la più credibile possibilità a disposizione del Movimento per fare della logica dei due forni, semmai, la conseguenza concreta di un successo invece che il metodo squinternato per raggiungerlo. Soltanto una volta conquistata la casamatta di Palazzo Chigi in società con il centrodestra salviniano, a Di Maio si presenterebbe un paesaggio dorato, anzi doroteo, nel quale giocare di sponda e triangolare come un perfetto democristiano di ultima generazione. Se la sua impresa dovesse abortire sul nascere, per un’impuntatura personale che tradisce soprattutto insicurezza, non gli resterebbe che cedere il posto ad altri. Per esempio Alessandro Di Battista, una (buona) specie di Che Guevara in pantaloncini e doppiopetto, capace di resistere lì dove ormai Di Maio non può eleggere dimora: l’opposizione. ◀