Nella «città-cattedrale» del Padiglione Italia
Nordest, mentre le sue opere campeggiano al Moma di New York e al Centre Pompidou di Parigi. «Non chiamatemi artista nè maestro», dice subito, «sono solo l’autore di quello che vedete».
Nato come pittore, a New York ha incontrato la fotografia e il video, acclamato presto per le sue sperimentazioni con polaroid di grande formato. Come quelle esposte al Padiglione Italia, dieci toraci, colti «con una camera ottica costruita da me, in cui lasciavo filtrare la luce con carte colorate, che così hanno segnato le immagini».
Corpi che rimandano ai San Sebastiano del Veronese e del Tiziano, ma che alla fine riflettono niente più di quello che siamo: «E siamo tutti brutti quando stiamo nudi, rilassati, non in posa, davanti a un obiettivo fotografico», dice tranquillo Gioli. «Mostriamo ferite, cicatrici, imperfezioni: la memoria è scritta sul corpo». E’ in questo modo che l’artista rodigino ha declinato il suo Codice Italia. «La forza della nostra fotografia all’estero si spiega perché veniamo tutti dal neorealismo».
«Ho viaggiato ovunque, ho vissuto questo paese in modo intermittente, ma ho tenuto la mia base là dove sono nato. Bisogna sempre in qualche modo avere un punto di riferimento, un luogo dove tornare», racconta. A chiedergli se abbia nostalgia degli anni ‘60, quando ha cominciato a volare da una residenza d’arte all’altra, lo si vede scuotere la testa: «Vengo da una famiglia poverissima, erano tempi davvero duri, come posso averne nostalgia. Mi vedevano dipingere e studiare pittura e mi consideravano niente più che un disadattato o un incapace. Se non sapevi far niente se non dipingere cosa potevi essere?». Poi il successo, che però non ha mai sanato il rapporto ruvido con la sua terra. «Ho detto anche tanti no. Non ho mai accettato qualunque proposta di lavoro o mostra che pure mi facevano. Non si lavora con tutti». Un esempio? «Con i fascisti no». Anche questo è Codice Italia. una serie di protesi lignee. Sopra le strutture, inoltre, è stato posizionato un doppio tavolato in larice che ha portato un miglioramento anche dal punto di vista sismico». Sostituita anche la copertura vera e propria, costituita dai coppi, impermeabilizzati con una membrana «all’acqua traspirante» in grado di permettere l’evaporazione del vapore acqueo dal sottotetto, evitando la condensa.
Ieri sera, in Duomo, un momento di preghiera e di ringraziamento: «Torno molto volentieri nella mia ex Cattedrale - ha spiegato Nicora - è un’opera che il popolo di Verona ha donato alla città: come per molte chiese storiche non c’è un costruttore, è stato un lavoro collettivo, a cui hanno preso parte le famiglie del tempo, rimanendo anonime».Dopo il Te Deum, l’inaugurazione di una nuova statua, davanti alla porta sacra. Si tratta dell’«Angelo dell’accoglienza», realizzato da un artista veronese, Albano Poli.